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La riforma dell'abuso d'ufficio (art. 323 c.p.)
La riforma dell'abuso d'ufficio (art. 323 c.p.)

 Con il d.l. n. 76/2020 («decreto legge recante misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale» ) pubblicato in gazzetta il 16 luglio 2020, il Governo interviene nuovamente sul reato di abuso d'ufficio, fattispecie che, dalla sua formulazione originaria nel Codice Rocco del 1930, ha già visto tre importanti modifiche (1990, 1997 e 2020).

Vediamo la formulazione pre-riforma 2020:

 Art. 323 c.p.: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé od altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

 Vigente tale formulazione, la Giurisprudenza dominante prevedeva che “l’abuso richiesto per l’integrazione della fattispecie criminosa in esame deve intendersi come esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione; sicchè, mancando l’elemento dell’esercizio del potere è da escludere la configurabilità del reato” (nella fattispecie, la Suprema Corte ha escluso l’abuso d’ufficio per il parlamentare che ponga in essere condotte di c.d. “raccomandazione”, poiché quando non integrano l’uso dei poteri funzionali connessi alla qualità soggettiva dell’agente, tali condotte non rientrano nella nozione di atto d’ufficio (cfr. Cassazione n. 5118/1998; n. 7600/2006; n.5895/2013).

 Una formulazione particolarmente vaga che, nonostante il richiamato orientamento giurisprudenziale, ha fatto sì che nella prassi giudiziaria si è assistito spesso alla richiesta di rinvio a giudizio da parte delle procure per il reato in questione sulla base del mero e spesso discutibile accertamento del semplice errore amministrativo, senza tuttavia svolgere indagine sull’elemento psicologico del reato; la maggior parte dei procedimenti penali si concludeva infatti con l’assoluzione dell’imputato. Ad esempio, nel 2016 sono stati aperti 6.970 procedimenti con 46 condanne, mentre nel 2017 sono stati aperti 6.582 fascicoli e disposte 57 condanne.

 La riforma del 2020 intende infatti riservare la sanzione penale soltanto ai fatti realmente offensivi e risponde alle sempre più avvertite esigenze di certezza e precisione delle scelte di politica criminale in un terreno, quale è quello politico-amministrativo, dove spesso la mera esistenza di un procedimento penale produce per l'imputato effetti devastanti a prescindere dalla sua effettiva colpevolezza.

 Art. 323 c.p. post riforma 2020: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità.

Come si nota, appare chiarissimo l'intento del Legislatore di ridurre drasticamente l’area della rilevanza penale: intento sottolineato dalla presenza nella nuova formulazione dei margini di discrezionalità della condotta e del ristretto perimetro normativo costituito dalla violazione di condotte espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge.

Ne consegue che adesso l'area del penalmente rilevante non viene più ricondotta alle violazioni delle "norme di legge o di regolamento" ma viene circoscritta all'inosservanza "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge". Si esclude, dunque, che il reato in questione sia configurabile in caso di trasgressione di norme di rango secondario, regolamentare o subprimario, oppure anche in ipotesi di norme di rango primario, tutte le volte che da queste ultime non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse per il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio. Nella gerarchia delle fonti, invero, i regolamenti sono fonti di rango secondario e, come tali, sono ovviamente subordinati alla Costituzione, nonché a tutti gli atti aventi forza di legge. In aggiunta, si richiede in ogni caso, sempre ai fini dell'integrazione del delitto de quo, che dalla norma violata non debbano residuare "margini di discrezionalità" in capo al soggetto agente.

Per quanto importante, questa “ristrutturazione” non può da sola soddisfare le esigenze di  legalità e tassatività espresse da questo delicato settore della repressione penale, poiché esse sono inevitabilmente collegate al sostrato delle disposizioni amministrative che attribuiscono poteri o impongono doveri funzionali; è pur vero che negli ultimi anni si è assistito al fenomeno cd. della “paura della firma” del funzionario pubblico che, nel timore di incorrere in sanzioni o procedimenti penali, ometteva di svolgere la propria attività, ma con l'ultimo intervento si potrebbe tuttavia correre il rischio opposto di una eccessiva depenalizzazione.

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