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La responsabilità del Comune per i danni da insidia stradale: la distrazione del danneggiato non impedisce il risarcimento.

La responsabilità del Comune per i danni da insidia stradale: la distrazione del danneggiato non impedisce il risarcimento.

Il caso preso in esame dalla Suprema Corte concerne l'infortunio subito da una donna che, nel percorrere il vialetto di un cimitero comunale, cade in conseguenza di un avvallamento, riportando diverse fratture.

Agendo dunque per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenze della caduta, la signora cita in giudizio l'amministrazione comunale (preposta alla custodia della strada), dalla quale però si sente rispondere che l'anomalia del fondo stradale era facilmente percebile – tenuto conto della circostanza che aveva una dimensione di due metri di lunghezza e venti centrimetri di profondità – e che l'evento si è verificato esclusivamente a causa della condota negligente, distratta, imperita, imprudente della vittima, così che nessuna colpa può attribuirsi al comune. La tesi della condotta colposa della vittima viene accolta nei primi due gradi di giudizio, così che la signora, per ottenere un congruo risarcimento, propone ricorso per Cassazione.

Sono infatti del tutto consuete le difese di stile, proposte dalle pubbliche amministrazioni o dalle assicurazioni convenute, che resistono alle domande risarcitorie di chi subisce un danno alla propria auto a causa di una buca nel manto stradale o di chi, per una sconnessione del marciapiede, inciampa e si ferisce. Spesso, la strategia difensiva consiste nell'attribuire la colpa nella verificazione del sinistro al danneggiato stesso, assumendo che quest'ultimo non abbia prestato la dovuta diligenza ed attenzione mentre percorreva la strada.

Nell'ipotesi di danno da insidia stradale, la valutazione del comportamento del danneggiato è in effetti di imprescindibile rilevanza, potendo tale comportamento, se ritenuto colposo, escludere del tutto la responsabilità dell'ente pubblico preposto alla custodia e manutenzione della strada, o quantomeno fondare un concorso di colpa del danneggiato stesso valutabile ex art. 1227, primo comma, Cod. Civ.

E dunque, se in generale si può riconoscere – con i dovuti limiti – una qualche rilevanza al cosiddetto principio di autoresponsabilità, in forza del quale chiunque cammini per strada deve prestare la dovuta attenzione e cautela, altrettanta rilevanza va però riconosciuta anche al principio di affidamento che l'utente della strada ripone sulla sicurezza della stessa.

D'altra parte – e qui sembra essere il punto – il contesto o lo stato dei luoghi non può far presumere il comportamento colposo del danneggiato, là dove tale contesto (per le sue caratteristiche) avrebbe dovuto indurre maggiori cautele ed attenzioni da parte dell'utente bensì, in maniera esattamente contraria, è proprio il contesto a far presumere la sussistenza del nesso di causa tra la cosa in custodia ed il danno subito.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della signora proprio sotto questo punto di vista, precisando che la condotta distratta o imprudente del danneggiato non basta di per sé ad escludere la risarcibilità del danno; quando viene eccepita la colpa della vittima, questa esige infatti un duplice accertamento: a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; b) che tale condotta non sia prevedibile e prevenibile. La condotta può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire la qualità di detta condotta è un giudizio di fatto, e come tale riservato al giudice di merito, ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima.

La Corte statuisce infatti che, nel caso della signora infortunata, non può evidentemente sostenersi che la caduta sia imprevedibile (rientrando nel notorio che la buca possa determinare la caduta del passante) e imprevenibile (sussistendo, di norma, la possibilità di rimuovere la buca o, almeno, di segnalarla adeguatamente). 

Deve allora ritenersi che il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non sia idoneo ad interrompere il nesso causale, che è manifestamente insisto nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla prevedibile e prevenibile interazione fra la condizione pericolosa della cosa e la condotta del passante.

In conclusione, si può allora affermare che, nel caso di caduta di pedone in una buca stradale, non risulta escluso ogni risarcimento a fronte del mero accertamento di una condotta colposa da parte della vittima; tale condotta, per interrompere il nesso causale, dovrà anche presentare caratteri di imprevedilità ed eccezionalità che - a onere del custode - devono necessariamente essere dimostrati.

Seguendo queste argomentazioni, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso della signora, cassa la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'Appello competente, che dovrà decidere attendendosi ai principi di diritto enunciati dalla Corte.

Dichiarare il falso in autocertificazione non costituisce reato se il DPCM è illegittimo

Dichiarare il falso in autocertificazione non costituisce reato se il DPCM è illegittimo

La questione giuridicaProcedendo dunque ad esercitare l'azione penale contro i due soggetti, il Pubblico Ministero, terminate le indagini, ha richiesto l'emissione di un decreto penale di condanna.

Il GIP del Tribunale di Reggio-Emilia, di diverso avviso, ha però ritenuto che tale richiesta non potesse trovare accoglimento e, con sentenza n. 54 del 2021, ha concluso che la compilazione di una autocertificazione falsa non costituisce un comportamento penalmente rilevante, per effetto della «indiscutibile illegittimità del DPCM 08.03.2020, come pure di tutti quelli successivamente emanati dal Capo del Governo».

Come si intuisce, le argomentazioni con le quali il Giudice emiliano sostiene tale assunto afferiscono alla illegittimità costituzionale del DPCM indicato che, configurando un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, si pone in contrasto con l'art. 13 della Costituzione. Tale articolo, infatti, afferma l'inviolabilità della libertà personale, stabilendo che questa può essere compressa esclusivamente a seguito di un atto motivato dall'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti tassativamente dalla legge (vi è in sostanza una doppia riserva, di legge e di giurisdizione). Nel nostro ordinamento, infatti, l'obbligo di permanenza domiciliare consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all'esito di un giudizio. Logico corollario di tale principio è che un DPCM, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge, non può disporre alcuna limitazione alla libertà personale, in osservanza del dettato costituzionale di cui al richiamato art. 13 Cost.

Il GIP precisa inoltre, in modo particolarmente incisivo, che non può confondersi la libertà di circolazione con la libertà personale. I limiti -legittimi- alla libertà di circolazione attengono a luoghi specifici il cui accesso può essere precluso poiché ritenuti pericolosi/infetti; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, bensì le persone, allora i divieti si configurano come vere e proprie limitazioni della libertà personale. Quando il divieto di spostamento è assoluto, cioè quando si prevede che il cittadino non possa recarsi in alcun luogo al di fuori della propria abitazione, è indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale.

Conclusioni

All'esito di tali argomentazioni, il Giudice emiliano ritiene dunque illegittimo il DPCM indicato per violazione dell'art 13 Cost.; peraltro, essendo il DPCM un atto amministrativo, il Giudice ordinario non deve neppure rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale per un esame sul punto, ma deve procedere direttamente alla disapplicazione dell'atto.

L'iter logico-giuridico seguito dal GIP conduce dunque a sostenere che la condotta di falso, pur materialmente comprovata in atti, non sia tuttavia punibile poiché questa, previa disapplicazione della norma che imponeva illegittimamente l'autocertificazione, va ad integrare il cosiddetto “falso inutile” o “falso innocuo”, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere.

Per tutti questi motivi, il Giudice pronuncia quindi sentenza di proscioglimento nei confronti dei due imputati, perché il fatto non costituisce reato. Tale sentenza è poi divenuta definitiva ed irrevocabile, essendo trascorsi 15 giorni dall'emissione della stessa senza che il P.M. abbia presentato opposizione in appello.

qui il link alla sentenza completa: https://www.ambientediritto.it/giurisprudenza/tribunale-di-reggio-emilia-27-01-2021-sentenza-n-54/
Patrimonializzazione del dato personale e risarcimento del danno.

Patrimonializzazione del dato personale e risarcimento del danno.

La patrimonializzazione del dato personale

Il diritto alla riservatezza, come comunemente si afferma in dottrina ed in giurisprudenza, è strettamente collegato alle profonde trasformazioni operate dalla società industriale e post industriale ma è soprattutto con l'incessante progresso tecnologico, con il perfezionarsi dei mezzi di comunicazione di massa e degli strumenti di raccolta di dati e notizie che si è resa necessaria l'individuazione di più efficaci ed adeguate difese.

Il fenomeno della “patrimonializzazione” del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali, impone agli operatori di rispettare, nelle relative transazioni commerciali, quegli obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a protezione del consumatore. Il dato personale è infatti espressione di un diritto della personalità dell’individuo, e come tale è soggetto a specifiche e non rinunciabili forme di protezione, quali -a titolo esemplificativo- il diritto di revoca del consenso, di accesso, rettifica, oblio.

La collaborazione tra Guardia di Finanza e Garante per la protezione dei dati personali

Alla luce delle nuove attribuzioni affidate all'Autorità per la protezione dei dati personali dalla legge italiana ed europea, si è reso necessario rinnovare il protocollo d'intesa fra Guardia di Finanza e Garante per la protezione dei dati personali. Il livello di collaborazione fra i due enti è sempre stato eccellente, ed ha consentito al Garante Privacy di avvalersi di un sistema di controllo efficace ed articolato, necessario per garantire il rispetto della protezione dei dati personali su tutto il territorio nazionale. L'art. 58 del regolamento prevede infatti dei penetranti poteri di indagine, che attribuiscono la facoltà:

- di ingiungere al titolare del trattamento e al responsabile del trattamento di fornire ogni informazione di cui necessiti per l'esecuzione dei suoi compiti;

- di condurre indagini sotto forma di attività di revisione sulla protezione dei dati;

- di notificare al titolare del trattamento o al responsabile del trattamento le presunte violazioni del Regolamento (UE) 2016/679;

- di ottenere, dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento, l'accesso a tutti i dati personali e a tutte le informazioni necessarie per l'esecuzione dei suoi compiti;

- di ottenere accesso a tutti i locali del titolare del trattamento e del responsabile del trattamento, compresi tutti gli strumenti e mezzi di trattamento dei dati, in conformità con il diritto dell'Unione o il diritto processuale degli Stati membri.

In generale, all'interno della collaborazione tra i due enti, il protocollo sviluppa particolarmente l'ambito ispettivo, promuovendo verifiche volte a rilevare, dall'esame di siti web ed altri strumenti telematici, eventuali carenze nella protezione dei dati personali da parte di titolari -pubblici e privati- che entrano a contatto con questo tipo di dati per mezzo di reti telematiche. 

  Può essere allora utile approfondire, in caso di violazione del codice della privacy, quali sono le condizioni che legittimano la risarcibilità del danno.
  Il danno va allegato e provato, non è sufficiente la mera violazione se da questa non deriva un danno apprezzabile.

Da un'analisi di alcune fra le più significative sentenze sul tema (cfr. Cass. Civ. n. 10638 del 2016 e Trib. Siena n. 1244 del 2018) si osserva che in caso di illecito trattamento di dati personali, il diritto al risarcimento del danno postula che a tale condotta sia conseguito uno stato di sofferenza dotato di adeguate caratteristiche di serietà della offesa e gravità del danno. Colui che chiede il ristoro del danno, in particolare, non può limitarsi a provare l'esistenza di una condotta altrui contraria a norme giuridiche, non essendo ciò sufficiente a provare anche l'ulteriore elemento della conseguenza lesiva per la riservatezza.

Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (cosiddetto “Codice della Privacy”), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della 'gravità della lesione' e della 'serietà del danno' (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva.

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale per violazione dell'art. 15, d.lgs. n. 196/2003, è però ammissibile la prova per testimoni di tale danno, in quanto esso non può ritenersi 'in re ipsa', ma va allegato e provato, sia pure attraverso il ricorso a presunzioni semplici, e, quindi, a maggior ragione, tramite testimonianze, che attestino uno stato di sofferenza fisica o psichica.

Il fenomeno della "Malamovida" e la responsabilità del Comune.

Il fenomeno della "Malamovida" e la responsabilità del Comune.

Tutti i ricorrenti abitano a Torino; negli ultimi 15 anni il loro quartiere è diventato, progressivamente, la principale zona della movida torinese. Sono stati aperti sempre nuovi ristoranti, wine e cocktail bar, enoteche, rivendite di street food, minimarket con bevande da asporto, ai quali si sono aggiunti numerosi venditori ambulanti. Il quartiere, deserto di giorno, si anima a partire dal tardo pomeriggio; vie e piazze sono affollatissime, congestionate ed impercorribili. I marciapiedi, le soglie dei portoni e le auto parcheggiate sono imbrattate da escrementi, vomito, bottiglie rotte e ogni tipo di rifiuti. I protagonisti della movida urlano, sporcano, fanno esplodere fuochi d'artificio, insultando i passanti, colpiscono le auto, suonano i campanelli dei palazzi a tutte le ore. I residenti non riescono a dormire e soffrono di stanchezza cronica; non possono leggere, conversare, guardare la TV, ricevere ospiti (a causa delle difficoltà di accesso alla zona), vivono con le finestre chiuse d'estate. Non possono neppure contare, in caso di emergenza, sull'accesso delle ambulanze e dei mezzi dei Vigili del Fuoco, che non potrebbero farsi largo nel blocco compatto dell'immensa folla.

Il piano di classificazione acustica della città assegna ad alcuni isolati del quartiere la classe III (limite assoluto di immissione rumorosa pari a 50 dB) e a pochi altri la classe IV (limite 55 dB). Dal 2013 in poi, l'ARPA e la Polizia Municipale hanno individuato numerosi locali dove i limiti di immissione sonora venivano ampiamente superati, con punte da 65 a 75 dB. In particolare, un'indagine tecnica eseguita su incarico di uno dei ricorrenti ha misurato, con riferimento alla situazione attuale, la rumorosità ambientale in termini assoluti evidenziando, per ciascuna delle abitazioni, il persistente superamento del valore di attenzione notturno per la classe V, quella propria delle zone a prevalenza industriale. Tutte le relazioni vennero inviate al Comune, peraltro già al corrente della situazione per via degli esposti dei residenti.

Le difese del Comune

In sintesi, le difese del Comune vertono sulla non riconducibilità degli schiamazzi alla negligenza dell'Ente stesso, che ha adottato tutte le misure possibili per tenere la situazione sotto controllo. Il quartiere è stato oggetto di rigidi controlli, molti locali sono stati sanzionati, altri chiusi o il loro orario di esercizio è stato ridotto. La Polizia Municipale ha costantemente pattugliato il quartiere per garantire il transito delle auto, contestare infrazioni agli avventori, controllare i locali pubblici e sgomberare stalli di sosta destinati ai residenti. Il servizio di pulizia cittadino è stato inoltre anticipato alle 3 del mattino, allo scopo di allontanare chi fosse ancora presente in strada.

Il Comune ha sempre agito ispirandosi alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione che presiedono all'esercizio delle sue funzioni: il fenomeno della “malamovida” è stato contenuto nel rispetto dell'ordinamento e dei valori coinvolti.

In particolare, il Comune ci tiene a sottolineare che la situazione pregiudizievole della quale i residenti si dolgono è addebitabile esclusivamente al comportamento illecito di terzi, che sono i soli a doverne rispondere: il Comune ha attuato, nei limiti delle proprie attribuzioni e del contemperamento tra i diversi interessi in gioco, tutte le misure necessarie per arginare il fenomeno, ed altro non può fare.

L'inquadramento della questione giuridica e la decisione del Tribunale

Il tema della genesi dei rumori e di tutte le altre molestie patite dai residenti investe la questione dell'applicabilità, al caso concreto, dell'art. 844 Cod. Civ (“Immissioni”)

Sul punto, le considerazioni svolte dal Comune sono condivisibili; infatti, ciò che accade nelle strade e nelle piazza del quartiere non dipende da eventi organizzati o autorizzati dal Comune stesso, ma dalla libera aggregazione di un numero eccessivo e incontrollato di persone, attirate dalla presenza dei numerosissimi esercizi commerciali. L'indagine da compiere attiene dunque ad un profilo diverso: si deve stabilire se davvero il Comune abbia posto in essere tutto quanto era in suo potere per ricondurre le immissioni rumorose entri i limiti previsti per ciascuna zona secondo la propria classificazione acustica e, in generale, per evitare e contenere gli altri effetti nocivi della movida.

Il nesso causale tra i danni patiti dai residenti e le omissioni del Comune deve dunque essere ricercato secondo la norma dell'art. 2043 Cod. Civ. (“Risarcimento per fatto illecito”) e la legge n. 447 del 1995 (“Legge quadro sull'inquinamento acustico”) che individua, all'art. 6, le specifiche competenze dei Comuni. D'altra parte, la difesa del Comune non consiste affatto nel negare tali attribuzioni, ma nel sostenere che, proprio nel rispetto delle norme vigenti, è stato fatto tutto quanto era dovuto. Tuttavia, come ha scritto il consulente tecnico, i provvedimenti emanati hanno avuto un successo al più limitato e provvisorio e, comunque, si sono palesati del tutto insufficienti per ricondurre la rumorosità del quartiere entro i limiti di legge. Senza dubbio, delle violazioni penali, quali schiamazzi, imbrattamento delle cose pubbliche e private, danneggiamenti, ingiurie) risponde chi le pone in atto, ma è palese che all'origine della concentrazione, nella zona, di un tale numero di trasgressori, vi è l'altrettanto grande concentrazione di ristoranti, bar, vinerie, birrerie, minimarket, rivenditori ambulanti. Il Tribunale ritiene allora che i provedimenti del Comune a carico di questo variegato universo commerciale sono stati del tutto insufficienti. Se c'è gente ovunque significa che nessuno degli esercenti ha rispettato l'obbligo di controllarne l'afflusso nelle proprie adiacenze: dunque, assai più locali avrebbero dovuto essere sanzionati o chiusi. Se un numero imprecisato di dehors ha invaso il suolo pubblico e vi si svolgono attività, non consentite, di somministrazione di alimenti e bevande, il Comune avrebbe dovuto revocare i relativi atti autorizzativi, sino a liberare le strade e a concentrare le consumazioni all'interno dei locali. Una criticità così elevata avrebbe richiesto un efficace piano di risanamento acustico che, a quanto risulta, non è stato neppure intrapreso. Per queste ed altre valutazioni, il Tribunale ritiene che, in conclusione, non si possa negare che sussista il nesso causale, nei termini illustrati, tra ciò che accade nel quartiere e le scelte del Comune. Alla responsabilità del Comune, consegue dunque il risarcimento dei danni lamentati dai residenti che il Tribunale quantifica in 6.000 euro all'anno dal momento dell'inizio delle immissioni intollerabili, e dunque un totale di 42.000 euro per ciascun residente.

Sinistri stradali e presunzione di pari responsabilità

Sinistri stradali e presunzione di pari responsabilità

Il caso

Sulla scorta del rapporto redatto dai Carabinieri di Baiano, dello schizzo pianimetrico ad esso allegato e delle deposizioni testimoniali, la sentenza di primo grado ha accertato che l'incidente si è verificato in prossimità dell'intersezione di via del Cardinale, allorquando il sig. [omissis], alla guida della propria autovettura, senza accertarsi se da destra o da sinistra provenisse qualche veicolo, ha invaso parte della carreggiata di via del Cardinale, anche a causa della visibilità ridotta da un'autovettura in sosta, senza avvedersi del ciclomotore che proveniva dalla via adiacente, urtando contro il ciclomotore stesso e facendolo rovinare a terra. Alla luce di tali risultanze, il giudice di primo grado ha affermato la responsabilità del conducente dell'autovettura per aver violato la norma di cui all'art. 145 comma 5 C.d.S ("Precedenza"), sanzionata anche dai Carabinieri intervenuti sul posto.

La questione giuridica

Ad avviso del Tribunale, l'accertamento della responsabilità dell'automobilista non esonera la conducente del ciclomotore dall'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento, al fine di escludere la presunzione di colpa posta a suo carico ai sensi dell'art. 2054 comma 2 c.c., dimostrando, ad esempio, di aver tenuto una velocità adeguata all'orario, alle condizioni della strada, alla prossimità di un'intersezione, o di aver approntato una manovra di emergenza idonea ad evitare lo scontro. Essendo mancata tale prova, ed essendo inoltre emersa la violazione, da parte della conducente del ciclomotore, della norma di cui all'art. 170 C.d.S. per aver trasportato sul ciclomotore un passeggero in difetto della omologazione del mezzo, la sentenza di primo grado ha ritenuto che la stessa avesse concorso al verificarsi del sinistro perché la presenza del passeggero aveva alterato l'equilibrio del mezzo, riducendo la sua capacità di manovra e la sua stabilità. La conducente del ciclomotore decideva quindi di impugnare la sentenza di primo grado, ritenendo che il Tribunale avesse erroneamente affermato il concorso di colpa nella misura del 70/30%; in particolare adduceva che la presenza del passeggero sul ciclomotore non avesse in alcun modo contribuito al verificarsi del sinistro.

Il principio di diritto espresso

La decisione della Corte d'Appello appare netta: “il motivo così articolato è infondato... La decisione del Tribunale appare immune da censura”.

La presunzione di pari responsabilità prevista dall'art. 2054 comma 2 c.c. pone a carico di ciascuno dei conducenti l'onere della prova liberatoria, sicché ciascuno di essi deve non soltanto dimostrare la condotta dell'altro, violativa delle norme che disciplinano la circolazione stradale, ma deve anche fornire la prova positiva della propria condotta, che deve risultare conforme alle norme del codice della strada ed immune da colpa generica, e volta a porre in atto le manovre di emergenza esigibili nel caso concreto (tra le tante, cfr. Cass. 7057/2017; 6039/2017).

Nel caso di specie, la conducente del ciclomotore non ha dimostrato di aver tenuto una condotta di guida pienamente conforme al codice della strada ed alle comuni regole di prudenza, non emergendo dalle deposizioni testimoniali alcun riferimento, neppure generico, alla sua andatura, né alla velocità tenuta dal ciclomotore, e non avendo i testimoni riferito circostanze dalle quali inferire che la stessa, approssimandosi all'intersezione, abbia usato la "massima prudenza al fine di evitare incidenti" richiesta dall'art. 145 comma 1 C.d.S.; né si evince dalla prova orale che la conducente del ciclomotore abbia fatto ricorso alle manovre di fortuna che si presentino le più opportune ed efficaci ad evitare l'evento lesivo. Nemmeno può ritenersi, come prospetta l'appellante, che il trasporto del passeggero sul ciclomotore non abbia contribuito al verificarsi del sinistro, dovendo invece affermarsi che la maggiore instabilità del mezzo e la maggiore difficoltà di manovra, conseguenti all'appesantimento del veicolo, abbiano concorso alla causazione dell'incidente perché hanno rallentato i tempi di frenata ed ostacolato una manovra di emergenza. Pertanto, resta fermo il capo della sentenza impugnata con il quale il Tribunale ha quantificato la responsabilità del conducente dell'automobile accertata in concreto, in misura del 70%, e quella concorrente della conducente del ciclomotore in misura del 30%, avuto riguardo alla mancata acquisizione della prova liberatoria ed alla violazione dell'art. 170 C.d.S.

Sinistro stradale cagionato da fauna selvatica: chi è il responsabile?

Sinistro stradale cagionato da fauna selvatica: chi è il responsabile?

I danni causati dagli animali selvatici, in passato, erano considerati sostanzialmente non indennizzabili, in quanto tutta la fauna selvatica era ritenuta “res nullius”; soltanto di recente la giurisprudenza della Corte di Cassazione, con differenti pronunce (Cass. n. 8384/2020; Cass. n. 8385/2020; Cass. n. 12113/2020; Cass. n. 13848/2020), ha condivisibilmente individuato nella Regione l'unico soggetto passivamente legittimato.

La ricostruzione del regime di imputazione della responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici ha infatti comportato l'individuazione dell'ente pubblico -eventualmente- responsabile  nella Regione, quale ente titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la tutela della fauna e la gestione sociale del territorio; e ciò anche laddove la Regione abbia delegato i suoi compiti alle Province.

La fonte della responsabilità degli incidenti è «la colposa omessa adozione delle misure necessarie ad impedirli» ed è dunque la Regione che rimane responsabile perché, anche quando abbia delegato le sue funzioni alle Province, non perde la titolarità delle stesse. Non è pero da escludersi la possibilità che la responsabilità concorra tra diversi enti quando si accerti, nel caso concreto, che il sinistro sia da imputarsi ai comportamenti colposi di più amministrazioni, a diversi livelli istituzionali.

Per quanto attiene al regime di imputazione della responsabilità, in applicazione del criterio oggettivo di cui all'art. 2052 c.c., sarà naturalmente il danneggiato a dover allegare e dimostrare che il danno è stato causato dall'animale selvatico.

Ciò comporta, evidentemente, che sul conducente graverà l'onere di dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito, oltre che l'appartenenza dell'animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992, e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.

Non può però ritenersi sufficiente -ai fini dell'applicabilità del criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c.- la sola dimostrazione della presenza dell'animale sulla carreggiata e neanche che si sia verificato l'impatto tra l'animale ed il veicolo, poiché al danneggiato spetta di provare che la condotta dell'animale sia stata la "causa" del danno e poiché, ai sensi dell'art. 2054 c.c., comma 1, in caso di incidenti stradali il conducente del veicolo è comunque onerato della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno.

Quest'ultimo - per ottenere l'integrale risarcimento del danno che ritiene di aver subito - dovrà dunque allegare e dimostrare l'esatta dinamica del sinistro, dalla quale emerga che egli aveva nella specie adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida (cautela da valutare con particolare rigore in caso di circolazione in aree in cui fosse segnalata o comunque nota la possibile presenza di animali selvatici) e che la condotta dell'animale selvatico abbia avuto effettivamente ed in concreto un carattere di tale imprevedibilità ed irrazionalità per cui -nonostante ogni cautela- non sarebbe stato comunque possibile evitare l'impatto, in modo tale che esso possa effettivamente ritenersi causa esclusiva (o quanto meno concorrente) del danno.

In conclusione, vale precisare la ratio che può dirsi sottesa a tale sistema normativo. Ogni decisione relativa a oneri economici che gravino sulla collettività deve tenere conto di un duplice ordine di elementi. Da un lato, devono essere tutelate le ragioni dei privati, che si ritengano danneggiati da res di proprietà della Pubblica Amministrazione. Allo stesso tempo, occorre preservare il supremo interesse, a vedere riconosciuta la risarcibilità —gravante sulle casse pubbliche— delle sole ipotesi di danno dovuto all'effettiva, e concreta, imputabilità del sinistro all'ente pubblico.

Ogni evoluzione interpretativa circa il portato degli artt. 2043 ,2051, 2052 c.c. trova fondamento proprio in questa -o analoghe- considerazioni: da qui deriva la necessità di precisare i criteri di applicazione dei regimi veicolati da queste disposizioni, al fine di costringere le pretese private in percorsi ben definiti, e il più possibile guidati.

Alcol test e la facoltà di farsi assistere dall'avvocato.

Alcol test e la facoltà di farsi assistere dall'avvocato.

Una recentissima sentenza della II Sezione della Cassazione Civile (n. 27378 dell'8/10/2021) fornisce delle indicazioni in merito alla legittimità dell'accertamento dello stato di ebbrezza del conducente effettuato senza la presenza del proprio avvocato qualora quest'ultimo, pur dichiarando la sua immediata disponibilità, tardi a presentarsi.

In materia di guida in stato di ebbrezza, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'accertamento strumentale di tale stato (cosiddetto “alcooltest”) costituisce atto di polizia giudiziaria urgente ed indifferibile cui il difensore può assistere senza tuttavia aver diritto di essere previamente avvisato, dovendo la polizia giudiziaria unicamente avvertire la persona sottoposta all'indagine della facoltà di farsi assistere da difensore di fiducia.

Ai sensi dell'art. 114 disp. Att. del Codice di Procedura Penale, infatti, la persona sottoposta a test dell'etilometro deve essere preventivamente avvisata della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia a pena di nullità dell'accertamento stesso; ciò non comporta, tuttavia, che i verbalizzanti debbano attendere l'arrivo del difensore eventualmente nominato, per procedere alla effettuazione del test.

Il difensore, allora, deve essere prontamente reperibile e disponibile a presenziare: è del tutto evidente, infatti, che un'eccessiva protrazione dell'attesa possa incidere sull'attendibilità ed efficacia dell'accertamento e, quindi, sulla corrispondenza reale dell'esito della rilevazione del tasso alcolemico.

Ma è possibile ipotizzare, dunque, il tempo massimo di attesa, prima che si proceda comunque ad effettuare il test?

In difetto di esplicita previsione normativa, la richiamata sentenza fornisce un'indicazione di massima: “il difensore, poi intervenuto presso il suddetto Comando di polizia, ha presenziato all'esecuzione della seconda prova... in tal senso restando salvaguardato anche il concreto esercizio del diritto di assistenza difensiva, da valutarsi, comunque, in modo compatibile con i tempi ragionevoli in cui deve essere realizzato il progressivo accertamento, considerandosi, perciò, certamente ragionevole, nel caso di specie, il lasso temporale complessivo di 35 minuti per il compimento del doppio test”.

Viene dunque indicato come ragionevole un tempo di attesa non superiore a 35 minuti, anche se vale la pena dare atto, in questa sede, che detto termine consiste in un'indicazione di massima, certamente non sovrapponibile, in modo automatico, ad altri casi.

In ogni caso, si evidenzia come anche una dilazione di pochi minuti può comportare effetti del tutto favorevoli al conducente che versi in stato di ebbrezza, in quanto ai fini dell'accertamento della violazione di cui all'art. 186 C.d.S. (integrante un semplice illecito amministrativo, ove il tasso rilevato sia accertato tra il limite minimo di 0,5 m/l e di 0,8 m/l, e gli estremi di un reato nell'ipotesi di superamento di quest'ultimo valore) è sufficiente che il tasso alcolemico cali anche di 0,1 m/l per attestarsi nella soglia inferiore, e dunque evitare, potenzialmente, un procedimento penale con conseguente sospensione o revoca della patente di guida.

Palpeggiamento dei glutei: la differenza tra molestia e violenza sessuale

Palpeggiamento dei glutei: la differenza tra molestia e violenza sessuale

Molestia e violenza sessuale: la differenza

In primo luogo, può essere utile definire gli ambiti applicativi della molestia e della violenza sessuale.

Per quanto attiene alla molestia, il dispositivo dell'art. 660 Cod. Pen., rubricato “ Molestia o disturbo alle persone ”, prevede che “ chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516. ” 

Tale formulazione appare sufficientemente chiara; integra il reato in oggetto qualsiasi condotta connotata dall'effetto di i mportunare e di produrre disturbo nell'altrui sfera privata o nell'altrui vita di relazione. La molestia è costituita da tutto ciò che altera dolosamente, fastidiosamente e importunamente lo stato psichico di una persona, con azione durevole o momentanea.

Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 660 c.p., è quindi necessaria una effettiva e significativa intrusione nell'altrui sfera personale che assurga al rango di "molestia o disturbo" ingenerato dall'attività di comunicazione in sé considerata ed a prescindere dal suo contenuto; ad esempio, le citofonate e le continue chiamate al telefono di una persona possono integrare il reato di molestie, così come i reiterati insulti rivolti alla vittima in un luogo pubblico. Recentemente, è stata condannata l'inquilina di un condominio che, al solo fine di arrecare disturbo e fastidio ai titolari e agli avventori del ristorante posto al piano terra, sbatteva il portone di metallo producendo un rumore fortemente molesto, riversava acqua dai balconi bagnando gli avventori sottostanti e fotografava questi ultimi mentre erano intenti a godersi attimi di svago e convivialità apostrofandoli in maniera offensiva. [Vedi Trib. Lecce, 15 febbraio 2021, n. 1611].

La molestia consiste comunque in un'attività disturbatoria, pressante ed indiscreta, ma svoltasi “a distanza”, che non comprende necessariamente un comportamento connotato da un'intrusione nella sfera fisica della persona offesa.

Per ciò che invece attiene alla violenza sessuale , l'art. 609- bis Cod. Pen. prevede che “ Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”

La condotta sanzionata comprende dunque qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest'ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale. Occorre inoltre considerare che i reati di violenza sessuale offendono la libertà personale intesa come libertà di autodeterminazione a compiere un atto sessuale, e non già la libertà morale della vittima, intesa come il pudore e l'onore sessuale. 

Ne consegue che non ogni atto espressivo della concupiscenza dell'agente configura un atto sessuale idoneo a ledere la libertà di determinazione sessuale del soggetto passivo, essendo indispensabile che tale atto offenda la sfera della sessualità fisica della vittima. La nozione di atti sessuali è, in pratica, la somma dei concetti di congiunzione carnale ed atti di libidine previsti dalle previgenti fattispecie di violenza carnale ed atti di libidine violenti: non possono essere inclusi in tale nozione quei comportamenti – quali ad esempio un gesto di esibizionismo sessuale o un atto di autoerotismo compiuto davanti a terzi - che, pur essendo manifestazione di istinto sessuale, non si concretano in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero non coinvolgono la corporeità di quest'ultimo. [vedi Cass. Sez. III, 12 febbraio 2004].

Ed invero, l a molestia si differenzia dall'abuso sessuale -anche nella forma tentata- proprio in quanto prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e normalmente si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con insistenti telefonate o con espressioni volgari, nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta [Vedi Cass. Sez. III, 26 ottobre 2005]. Ciò in quanto tra i biasimevoli motivi previsti dall'art. 660 c.p., costituenti elemento del reato di molestie o disturbo alle persone, possono essere ricompresi anche quelli destinati a dar sfogo al proprio impulso sessuale, purché l'azione di fastidio e di incomodo non vada oltre il turbamento della quiete privata.

  • Il palpeggiamento dei glutei: è molestia o violenza sessuale?

Alla luce di quanto fin qui argomentato, è allora possibile ritenere che il toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, configura il reato di violenza sessuale.

Come detto, la condotta punita dall'art. 609- bis Cod. Pen. ricomprende, oltre alla congiunzione carnale vera e propria, qualsiasi altro atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest'ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale. 

Pertanto la valutazione del giudice sulla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ed al grado di intensità fisica del contatto instaurato , ma deve tenere conto dell'intero contesto in cui tale contatto si è realizzato; di conseguenza possono costituire un'indebita intrusione fisica nella sfera sessuale non solo i toccamenti delle zone genitali, ma anche quelle altre parti anatomiche, c.d. "erogene", che, normalmente e notoriamente, sono oggetto di concupiscenza sessuale. Ai fini della configurabilità del reato è peraltro necessario e sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la coscienza e volontà di compiere atti di invasione nella sfera sessuale altrui senza l'ulteriore necessità di quelle finalità particolari (soddisfacimento dell'istinto sessuale), che pur nella generalità dei casi, di fatto, ne costituiscono il movente, ma non rientrano, tuttavia, nella fattispecie tipica.

La giurisprudenza è infatti concorde nel ritenere che il palpeggiamento dei glutei integra l'ipotesi di violenza sessuale e non di molestia , essendo configurabile il reato contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo e insistito, diversi dall'abuso sessuale vero e proprio.

Per quanto infine attiene alla quantificazione della pena, una recente pronuncia [vedi Tribunale Bari sez. II, 07/09/2021, n.2381] precisa che i toccamenti sui glutei e sul seno perpetrati da sopra ai vestiti e per tempi molto brevi, in ragione della loro modesta invasività e delle non drammatiche conseguenze per la persona offesa, possano rientrare nel concetto di minore lesività di cui all'attenuante prevista per il reato di violenza sessuale ex art. 609 bis, comma terzo, c.p., che comporta una diminuzione di pena in misura non eccedente i due terzi.

Investimento di pedone: come viene ripartita la colpa?

Investimento di pedone: come viene ripartita la colpa?

Il pedone che attraversa al di fuori delle strisce pedonali è sempre responsabile del proprio investimento?

  • Le fonti: Codice Civile e Codice della Strada

Per capire come viene ripartita la colpa in un sinistro stradale con investimento di pedone occorre richiamare una norma fondamentale che disciplina la circolazione dei veicoli: questa è quella contenuta nell' art. 2054 del Codice Civile , il cui prima comma dispone che  “il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno .”

Secondo la giurisprudenza prevalente ( ex multiis Cass. Civ. n. 1135 del 2015), la formulazione dell'art. 2054 Cod. Civ. stabilisce una presunzione di colpa a carico del conducente , il quale è onerato di fornire la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno prodotto dalla circolazione del veicolo; in caso di investimento di pedone, dunque, vi sarà in ogni caso una responsabilità presunta del conducente.

Tale presunzione, tuttavia, non esclude che si possa fornire la prova di un eventuale concorso di colpa del pedone nella causazione del fatto, qualora risulti che quest'ultimo abbia tenuto una condotta imprudente o comunque in contrasto con l'art. 190 C.d.S; trattasi infatti di presunzione relativa (e non assoluta) che ammette prova contraria.

L'art. 190 del Codice della Strada pone infatti delle regole comportamentali per il pedone, il quale dovrà ovviamente utilizzare gli appositi attraversamenti, se presenti. In assenza di strisce o altri attraversamenti, invece, il pedone dovrà prestare l'attenzione necessaria ad evitare situazione di pericolo per sé o altri, e dare la precedenza ai mezzi in transito.

La violazione di queste norme integra senza dubbio una condotta colposa che, in caso di investimento, può determinare: a) un concorso di colpa con il conducente, con conseguente diminuzione, proporzionale, del risarcimento; b) una responsabilità esclusiva del pedone, con conseguente perdita di ogni diritto al risarcimento dei danni;

  • I criteri da seguire per l'attribuzione della colpa

La Corte di Cassazione (sentenza n. 2241 del 2019), confermando un orientamento consolidato, traccia linee guida molto chiare per i giudici che saranno chiamati ad accertare le rispettive colpe -e dunque anche l'entità dell'eventuale risarcimento dei danni- in caso di sinistro stradale con investimento di pedone. Sono tre i passaggi da seguire :

1) Punto di partenza è la presunzione di colpa del conducente, pari al 100%;

2) Occorre poi accertare in concreto l'eventuale comportamento colposo, imprudente, negligente del pedone;

3) infine, ridurre progressivamente la percentuale di colpa a carico del conducente via via che emergono circostanze idonee a dimostrare la colpa del pedone: tanto più il comportamento di quest'ultimo si discosta dall'art. 190 C.d.S., tanto maggiore sarà l'incidenza nella causazione del sinistro.

Precisa poi la Corte di Cassazione che la condotta del pedone che inizi l'attraversamento della strada al di fuori delle strisce pedonali senza dare la precedenza ai veicoli sopraggiungenti costituisce automaticamente una concausa nella produzione dell'evento. Ciò significa che, pur partendo dal 100% di colpa a carico del conducente, per il solo fatto che l'attraversamento sia avvenuto fuori delle strisce pedonali questa responsabilità dovrà necessariamente essere ridotta, in modo più o meno ampio a seconda delle circostanze concrete che saranno accertare dal giudice.

Vi è poi la possibilità che l'investimento del pedone al di fuori delle strisce possa essere ricondotto a sua esclusiva responsabilità (con conseguente perdita di ogni diritto al risarcimento dei danni ) quando il conducente, che deve vincere la presunzione di colpa di cui all'art. 2054 Cod. Civ, dimostri che il pedone si sia posto come ostacolo imprevisto, imprevedibile, ed inevitabile , e, dall'altro lato, di aver tenuto una condotta corretta e rispettosa di ogni prescrizione stradale.

Tuttavia, l'imprevedibilità della condotta del pedone dovrà essere valutata con particolare rigore, non potendosi ritenere imprevedibile il semplice attraversamento al di fuori delle strisce pedonali, soprattutto se questo avviene in un'area particolarmente affollata o vicino ad una scuola: ad esempio non è stato ritenuto imprevedibile nemmeno l'attraversamento frettoloso e a testa bassa di un pedone in una strada del centro urbano dove si trovano vari bar ed esercizi commerciali. (cfr. Cass. n. 12595 del 2015).

Ciò appare in effetti coerente con la nuova disposizione dell'art. 191 C.d.S. ( Comportamento dei conducenti nei confronti dei pedoni) che stabilisce che i conducenti debbano rallentare gradualmente e fermarsi non solo quando un pedone transiti sull'apposito attraversamento, ma anche quando si trovi nelle sue “ immediate prossimità”.

  • >Un caso particolare: il pedone investito sulle strisce ha sempre ragione?

Il pedone che si accinge ad attraversare la strada utilizzando un apposito attraversamento non è neppure tenuto a verificare se i mezzi in transito mostrino o meno l'intenzione di rallentare e lasciarlo attraversare, potendo egli fare ragionevole affidamento sugli obblighi di cautela gravanti sui conducenti; ciononostante, qualora la sua condotta sia connotata da estrema imprevedibilità e straordinarietà, potrà comunque sussistere un concorso di colpa. È il classico caso del pedone distratto che oltrepassa l'attraversamento pedonale dando l'impressione di non volerlo percorrere ma, cambiando idea all'improvviso, si getta repentinamente in mezzo alla strada, venendo colpito da un mezzo in transito. Può essere utile richiamare la sentenza n. 5540 del 2011: « il pedone, il quale attraversi la strada di corsa sulle apposite strisce pedonali immettendosi nel flusso dei veicoli marcianti alla velocità imposta dalla legge, pone in essere un comportamento colposo che può costituire causa esclusiva del suo investimento da parte di un veicolo, ove il conducente dimostri che l' improvvisa ed imprevedibile comparsa del pedone sulla propria traiettoria di marcia ha reso inevitabile l'evento dannoso, tenuto conto della breve distanza di avvistamento, insufficiente per operare un'idonea manovra di emergenza

In assenza di attraversamenti, invece, occorrerà distinguere i casi in cui il pedone non abbia ancora impegnato la carreggiata, dove dunque la precedenza spetterà al veicolo sopraggiungente, dai casi in cui il pedone abbia già impegnato la carreggiata, nei quali il conducente dovrà sempre consentirgli di raggiungere in sicurezza il lato opposto della strada.

  • Conclusioni

In definitiva, il conducente sarà in ogni caso responsabile, o quantomeno corresponsabile, dell'investimento del pedone, salvo che non riesca a dimostrare che quest'ultimo abbia tenuto una condotta “imprevista ed imprevedibile” da cui ne è derivata un oggettiva impossibilità di avvistarne tempestivamente i movimenti e di porre in essere una manovra di emergenza.

Per andare indenne da ogni pretesa risarcitoria (ed anche da responsabilità penale, in caso di lesioni riportate dal pedone) il conducente non solo dovrà dimostrare di aver rispettato tutte le norme sulla circolazione stradale, ma dovrà altresì fornire prova della imprevedibilità del comportamento del pedone, cosa che, all'atto pratico, può essere particolarmente complessa (basti pensare al sinistro avvenuto in assenza di testimoni); non a caso, le sentenze che imputano la causazione del sinistro alla responsabilità esclusiva del pedone sono assai sporadiche.

Vendita online di un prodotto non autorizzata dal titolare del marchio

Vendita online di un prodotto non autorizzata dal titolare del marchio

In linea generale un principio fondamentale che regola il rapporto tra il principio della libera circolazione di merci e servizi e la tutela dei diritti di proprietà industriale è il c.d. principio dell’esaurimento di quest’ultimi.

Nel caso del diritto al marchio l’applicazione di questo principio comporta che il titolare del diritto possa compiere il primo atto di immissione in commercio del prodotto contraddistinto dal marchio, dopodichè il prodotto potrà circolare liberamente all’interno dell’Unione Europea, senza che il titolare possa far leva sulla privativa industriale per ostacolare la vendita da parte di terzi del prodotto già immesso sul mercato dal titolare del marchio o, comunque con il suo consenso.

Questo principio trova applicazione anche nel caso in cui il titolare del marchio tenti di bloccare la vendita da parte del terzo del proprio prodotto (originale e già introdotto sul mercato dal titolare stesso) attraverso i canali di vendita on line.

Il titolare del marchio potrà invece opporsi alla circolazione del prodotto già immesso sul mercato nel caso in cui le modalità utilizzate da un terzo per la commercializzazione siano tali da ledere la reputazione del marchio o si verifichi un danneggiamento o modifica della confezione o del prodotto stesso. Questa è infatti un’eccezione particolare che la normativa prevede all’operatività del principio dell’esaurimento dei diritti di proprietà industriale in forza del 2° comma dell’art. 5 del Codice di Proprietà industriale il quale dispone che ‘.. questa limitazione dei poteri del titolare (n.b.: derivante dal principio di esaurimento del diritto) tuttavia non si applica quando sussistono motivi legittimi perchè il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato od alterato dopo al loro immissione in commercio’.

E’ però importante sottolineare che tra questi ‘motivi legittimi’ non vi rientra la mera riduzione del prezzo applicata dal terzo rispetto a quello applicato dalla rete di distributori ufficiali.

Di recente il Tribunale di Milano, con l’ordinanza n. 3755 dell’11 maggio 2021 (ricorrente ‘Chanel’), ha però operato un importante distinguo, stabilendo che le modalità di vendita, anche attraverso siti online, di un rivenditore esterno alla rete di distribuzione selettiva di un marchio di lusso che siano lesive del del prestigio e della reputazione dello stesso possono essere impedite.

In tal caso infatti, secondo detta ordinanza, non può applicarsi il principio dell’esaurimento del marchio ex art. 5, comma 1°, del Codice di Proprietà industriale e viene quindi riconosciuto al titolare del marchio il diritto di opporsi a tali vendite.

La decisione ha riguardato il caso di una nota società di prodotti di alta moda operante nel settore del lusso che ha agito in giudizio lamentando di ritersi danneggiata dalla condotta di una società che commercializzava e promuoveva senza autorizzazione alcuni prodotti con il suo marchio sulla rete Internet.

Questa attività di vendita, a detta della ricorrente, non teneva conto dei severi standard qualitativi richiesti dalla stessa per i distributori della propria rete commerciale ed in generale degli standard relativi alla vendita di prodotti di lusso. La ricorrente rilevava, inoltre, la manomissione dei codici di tracciabilità apposti sulle confezione di tali prodotti.

Il Tribunale di Milano ha valutato dapprima la legittimità del sistema di distribuzione selettiva della ricorrente che viene genericamente definito come ‘un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contrato, direttamente od indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema..’.

Tale sistema è astrattamente idoneo ad impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza ma tale modalità di vendita può essere considerata legittima a condizione che vengano rispettate le seguenti condizioni: a) sia limitata a prodotti di lusso e di prestigio al fine di conservarne la qualità e garantire un utilizzo corretto; b) i limiti imposti alla libera concorrenza e generati da tali modalità di vendita non vadano oltre il necessario e siano stabiliti in modo oggettivo (nel caso di specie si prevedeva che i prodotti del brand non dovevano essere affiancati da altri prodotti recanti altri marchi, che dovesse essere garantito un servizio di consulenza personalizzata, che dovesse essere assicurata l’alta qualità del sito Internet mentre non era prevista alcuna prescrizione di natura restrittiva relativa ai prezzi, al territorio ed alle forniture.

Riconosciuta quindi la liceità del sistema di distribuzione selettiva della ricorrente, il Tribunale di Milano si è soffermato sulla condotta della resistente, al fine di verificare se la stessa rispettasse o meno gli standard qualitativi imposti dalla ricorrente per i propri distributori autorizzati.

Il Tribunale, all’esito di tale esame, ha ravvisato la corretta applicabilità al caso di specie della deroga prevista dall’art. 5, comma 2° del CPI, in quanto la resistente non aveva applicato gli standard richiesti dal brandi di moda per preservare il proprio prestigio e notorietà; i codici identificativi originari dei prodotti risultavano essere stati rimossi, i prodotti venivano accostati ad altri prodotti di minor qualità, il sito web presentava l’immagine di una campagna pubblicitaria non più in corso.

Il Tribunale ha quindi escluso l’operatività del generale principio di esaurimento di cui sopra ed ha conseguentemente riconosciuto il legittimo esercizio da parte della ricorrente della facoltà di opporsi alla vendita ex art. 5, comma 2°, CPI, disponendo l’inibitoria, assistita da penale, alla ulteriore commercializzazione, offerta in vendita, promozione e pubblicizzazione dei prodotti a marchio della ricorrente sul sito e.commerce della resistente nonchè la pubblicazione del dispositivo dell’ordinanza sul sito della stessa.

I like al post su Facebook costituiscono indizio sufficiente a far ritenere sussistente il reato di istigazione all'odio razziale.

I like al post su Facebook costituiscono indizio sufficiente a far ritenere sussistente il reato di istigazione all'odio razziale.

La Corte di Cassazione Penale conferma, in attesa del processo, la misura dell'obbligo di presentazione presso la polizia giudiziaria per il soggetto che ha aderito ad un gruppo neonazista nato su Facebook e che, tramite i suoi 'like', contribuisce alla diffusione dei post dal contenuto antisemita.

Ciò in ordine al reato di cui all'articolo 604-bis del Codice Penale, rubricato “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”,che prevede una pena che può arrivare fino a 6 anni di reclusione e 6.000 euro di multa.

Il reato di istigazione all'odio razziale è un crimine contestato soprattutto sulla base dell'attività social dell'indagato, che interagiva con una comunità virtuale neonazista, il cui scopo principale era la propaganda e l'incitamento all'odio razziale.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene indizio sufficiente del reato di istigazione all'odio razziale la condotta sostanziatasi in plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp, dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, risultando sussistente il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone.

Ma come si può ritenere che, semplicemente mettendo dei “like” su un post, si possa contribuire a diffondere il messaggio antisemita e discriminatorio?

I giudici sottolineano le modalità di funzionamento dei social network e di Facebook in particolare, incentrato su un algoritmo che considera rilevanti i like e che assegna un valore maggiore ai post che ricevono più interazioni. Ne discende che, tanto più un post riceverà like, commenti e condivisioni, tanto più questo verrà considerato “di maggior valore”, così che verrà più ampiamente valorizzato e diffuso all'interno della community.

Sentenza n. 4534 del 6 dicembre 2021.

Indirizzi Pec e sede italiana delle principali compagnie aeree

Indirizzi Pec e sede italiana delle principali compagnie aeree

La mancanza di personale delle compagnie aeree ed i relativi scioperi hanno portato, com'è noto, a voli cancellati fino a settembre, ritardi, overbooking, smarrimenti dei bagagli e vari altri disagi per i passeggeri con conseguenti, numerose, richieste di rimborso e risarcimento danni.

Si ritiene utile fornire, pertanto, una lista con i contatti delle principali compagnie aeree per coloro che avessero necessità di inoltrare tali richieste.

 La lista è in aggiornamento:

- Aegean Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Torre Uffici 2, Via Gen. Felice Santini, snc – 00054 Fiumicino (RM)

- Aeroflot Russian Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. sede italiana: Via Bissolati, 76 – 00187 Roma (RM)

- Aerolineas Argentinas

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - sede italiana: Via cavour, 310 – 00184 Roma (RM)

- Air China

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. sede italiana: Corso d’Italia, 29 – 00198 Roma (RM)

- American Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - sede italiana: via dell’ aeroporto di fiumicino, 320, p. internazionali – terminal c – 00054 fiumicino (RM)

- Air Italy

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: via gustavo moreno, hangar est – ingresso 4 – 21019 Somma Lombardo, Varese (VA)

- Air France

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: via sardegna, 40 – 00187 Roma (RM)

- Air One

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: Piazza Almerico da Schio, 6, pal. rpu – 00054 Fiumicino (RM)

- Alitalia

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: Società Aerea Italiana s.p.a. in amministrazione straordinaria, via Alberto Nassetti– 00054 fiumicino (RM)

- Blue Panorama Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. sede: Blue Panorama Airlines in amministrazione straordinaria, Viale Liegi, 32 – 00198 Roma (RM)

- British Airways

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Viale Città d’Europa, 68 – 00144 Roma (RM)

- Easy Jet

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Fernanda Wittgens, 3 c/o revistudio – 20123 Milano (MI)

- Iberia

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Basento, 57 – 00198 Roma (RM)

- KLM

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Modigliani, 45- 20090 Segrate Milano (MI)

- Lufthansa

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Spadolini, 7 – piano 8 – 20141 Milano (MI)

- Meridiana Fly

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: Centro direzionale aeroporto Costa Smeralda - 07026 Olbia (OT)

- Ryanair

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- Tap Portugal

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Giovanni Battista Martini, 13 – 00198 Roma (RM)

- Turkish Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Barberini, 47 – 00187 Roma (RM)

- Volotea

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Viale Luigi Broglio 8 30174 Venezia (VE)

- Vueling Airlines

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