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Anche il Tribunale di Arezzo riconosce il Bonus Docenti ai "precari"

Anche il Tribunale di Arezzo riconosce il Bonus Docenti ai "precari"

Anche il Tribunale di Arezzo riconosce il diritto dei docenti a tempo determinato (c.d. “precari”) a beneficiare della carta docente, per l'importo di 500 euro per ogni annualità di servizio. La Corte di Cassazione, con sentenza dello scorso ottobre, chiarisce in modo ancora più specifico che il diniego di accesso alla Carta Docente si pone in contrasto anche con i "principi generali del diritto U.E. di uguaglianza e parità di trattamento e di non discriminazione in materia di impiego e dei diritti fondamentali, consacrati negli artt. 14,20 e 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea".

  • Cos'è la Carta del Docente

L’art. 1, comma 121, della Legge 13 luglio 2015, n. 107, stabilisce che “al fine di sostenere la formazione continua dei docenti e di valorizzarne le competenze professionali, è istituita, nel rispetto del limite di spesa di cui al comma 123, la Carta elettronica per l'aggiornamento e la formazione del docente di ruolo, delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, dell'importo nominale di euro 500,00 annui per ciascun anno scolastico…”.

Ciò vale a dire che il docente che può usufruire di tale beneficio economico avrà diritto ad una carta elettronica dell'importo di Euro 500,00 annui utilizzabili per l'acquisto di corsi di aggiornamento, ingressi a musei, teatri, cinema, o per l'acquisto di apparecchiature elettroniche.

In particolare, la Carta del Docente è utilizzabile per l'acquisto di:

  • libri e testi, anche in formato digitale, di pubblicazioni e di riviste comunque utili all'aggiornamento professionale;
    hardware e software;
  • iscrizione a corsi per attività di aggiornamento e di qualificazione delle competenze professionali, svolti da enti accreditati presso il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca;

  • iscrizione a corsi di laurea, specialistica o a ciclo unico, inerenti al profilo professionale, ovvero a corsi post lauream o a master universitari inerenti al profilo professionale;

  • titoli di accesso per rappresentazioni teatrali e cinematografiche;

  • titoli per l’ingresso a musei, mostre ed eventi culturali e spettacoli dal vivo;

  • iniziative coerenti con le attività individuate nell’ambito del piano triennale dell’offerta formativa delle scuole e del Piano nazionale di formazione, di cui articolo 1, comma 124, della legge n. 107 del 2015 (c.d. Buona Scuola).

  • Le motivazioni per cui il beneficio spetta anche ai docenti a tempo determinato

Il Ministero tuttavia individua i potenziali fruitori di tale beneficio economico esclusivamente nei docenti a tempo indeterminato, anche se con contratto part-time e compresi inoltre i docenti che sono nel periodo di formazione e prova, mentre vengono esclusi tutti i docenti con contratto a tempo determinato.

La differenziazione appena descritta contrasta con l’esigenza del sistema scolastico di far sì che sia tutto il personale docente (e non certo esclusivamente quello di ruolo) a poter conseguire un livello adeguato di aggiornamento professionale e di formazione, affinché sia garantita la qualità dell’insegnamento complessivo fornito agli studenti. Non può dubitarsi, infatti, che, nella misura in cui la P.A. si serve di personale docente non di ruolo per l’erogazione del servizio scolastico, questa deve curare la formazione anche di tale personale.

Sulla questione è recentemente intervenuto anche il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1842 del 16 marzo 2022, che ha annullato il D.P.C.M n. 32313 del 23 settembre 2015 nella parte in cui esclude dai benefici riconosciuti gli insegnanti di religione a tempo determinato. In particolare il Consiglio di Stato afferma che occorre “ … tenere conto delle regole in materia di formazione del personale docente dettate dagli artt. 63 e 64 del C.C.N.L. di categoria: regole che pongono a carico dell’Amministrazione l’obbligo di fornire a tutto il personale docente, senza alcuna distinzione tra docenti a tempo indeterminato e a tempo determinato, “strumenti, risorse e opportunità che garantiscano la formazione in servizio” (così il comma 1 dell’art. 63 cit.). E non vi è dubbio che tra tali strumenti possa (e anzi debba) essere compresa la Carta del docente, di tal ché si può per tal via affermare che di essa sono destinatari anche i docenti a tempo determinato.”

Anche la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, investita della questione, con ordinanza del 18 maggio 2022 (causa c-450/2021) ha chiarito definitivamente che il beneficio previsto dall'art. 1, comma 121, della Legge 13 luglio 2015, n. 107, compete anche ai docenti non di ruolo. La CGUE precisa infatti che la situazione dei docenti a tempo indeterminato e quella dei docenti a tempo determinato sono comparabili dal punto di vista della natura del lavoro e delle competenze professionali richieste; La Corte ha altresì escluso la configurabilità di ragioni oggettive che possano giustificare la disparità di trattamento tra docenti di ruolo e non di ruolo.

  • I requisiti per ottenere il beneficio

Nella recente sentenza richiamata in epigrafe, si specifica che:

1) La Carta Docente di cui alla L. 107 del 2015, art. 1, comma 121, spetta ai docenti non di ruolo che ricevano incarichi annuali fino al 31.8, ai sensi della L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 1, o incarichi per docenza fino al termine delle attività di didattiche, ovverosia fino al 30.6, ai sensi della L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 2, senza che rilevi l'omessa presentazione, a suo tempo, di una domanda in tal senso diretta al Ministero.

2) Ai docenti di cui al punto 1, ai quali il beneficio di cui alla L. n. 107 del 2015, art. 1, comma 121, non sia stato tempestivamente riconosciuto e che, al momento della pronuncia giudiziale sul loro diritto, siano interni al sistema delle docenze scolastiche, perché iscritti nelle graduatorie per le supplenze, incaricati di una supplenza o transitati in ruolo, spetta l'adempimento in forma specifica, per l'attribuzione della Carta Docente, secondo il sistema proprio di essa e per un valore corrispondente a quello perduto, oltre interessi o rivalutazione, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, dalla data del diritto all'accredito alla concreta attribuzione.

3) Ai docenti di cui al punto 1, ai quali il beneficio di cui alla L. n. 107 del 2015, art. 1, comma 121, non sia stato tempestivamente riconosciuto e che, al momento della pronuncia giudiziale, siano fuoriusciti dal sistema delle docenze scolastiche, per cessazione dal servizio di ruolo o per cancellazione dalle graduatorie per le supplenze, spetta il risarcimento, per i danni che siano da essi allegati, rispetto ai quali, oltre alla prova presuntiva, può ammettersi la liquidazione equitativa, da parte del giudice del merito, nella misura più adeguata al caso di specie, tenuto conto delle circostanze del caso concreto (tra cui ad es. la durata della permanenza nel sistema scolastico, cui l'attribuzione è funzionale, o quant'altro rilevi), ed entro il massimo costituito dal valore della Carta, salvo allegazione e prova specifica di un maggior pregiudizio.

4) L'azione di adempimento in forma specifica per l'attribuzione della Carta Docente si prescrive nel termine quinquennale di cui all'art. 2948 n. 4 c.c., che decorre dalla data in cui è sorto il diritto all'accredito, ovverosia, per i casi di cui alla L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 1 e 2, dalla data del conferimento dell'incarico di supplenza o, se posteriore, dalla data in cui il sistema telematico consentiva anno per anno la registrazione sulla corrispondente piattaforma informatica; la prescrizione delle azioni risarcitorie per mancata attribuzione della Carta Docente, stante la natura contrattuale della responsabilità, è decennale ed il termine decorre, per i docenti già transitati in ruolo e cessati dal servizio o non più iscritti nelle graduatorie per le supplenze, dalla data della loro fuoriuscita dal sistema scolastico.

Le principali fattispecie di reato contro gli animali: il delitto di uccisione e di maltrattamento.

Le principali fattispecie di reato contro gli animali: il delitto di uccisione e di maltrattamento.

Nell'articolo che segue si fornisce un quadro generale dell'attuale sistema di tutela penale degli animali.

Le norme fondamentali per la tutela degli animali:

Dal punto di vista del diritto penale, la norma di riferimento è la legge n. 189 del 2004, definita «Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate».

Vengono qui introdotte nuove fattispecie di reato, e vengono aggiunti e riformati alcuni articoli del codice penale, i più importanti dei quali sono l'art. 544-bis, che punisce chi senza necessità cagiona la morte di un animale con la reclusione da quattro mesi a due anni, ed il 544-ter, che sanziona chi maltratta, sevizia, e compie violenze sugli animali con la reclusione da tre a diciotto mesi.

Tali pene, in realtà, appaiono relativamente blande se si considera che è in generale consentito il ricorso alla sospensione condizionale della pena fino a 18 mesi o ad altri istituti deflattivi che possono abbattere la pena comminata fino a tradursi in una sostanziale impunità per il reo.

Maltrattamento (art. 544-ter Codice Penale)

L'articolo 544-ter del Codice Penale recita: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro.

La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi.

La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale”

Quali sono, in concreto, gli atti che possono essere considerati “maltrattamento di animali”?

Il concetto di maltrattamento degli animali comprende tutte le forme di abuso fisico o emotivo, così come la negligenza e il disinteresse per i bisogni fondamentali di un animale domestico o selvatico; ciò vale a dire qualsiasi azione o contesto che produca dolore o sofferenza all'animale in questione.

Il maltrattamento non si esprime esclusivamente attraverso la violenza fisica diretta, come i colpi o il confinamento. Ad esempio, se un proprietario non fornisce acqua, cibo e igiene al suo animale domestico, condannandolo a condizioni di vita malsane, anche questa è una forma di violenza.

Allo stesso modo, sfruttare la forza fisica di un animale costringendolo a lavorare oltre le sue capacità fisiche è considerato un abuso, così come l’addestrare un animale per combattimenti illegali.

I maltrattamenti sono clinicamente classificati in quattro categorie, anche se possono mutualmente coesistere:

  • Le negligenze, che rappresentano nell'animale come nell'uomo la grande maggioranza dei casi di maltrattamento;

  • Le ferite non accidentali chiamate anche abusi fisici, che comprendono traumi, bruciature, ferite da arma da fuoco, annegamento, asfissia da strangolamento, avvelenamenti;

  • Gli abusi sessuali, che concernono tutte le relazioni sessuali con un animale, qualunque sia la natura, violenta o no;

  • Gli abusi psicologici responsabili di turbe emozionali quali ansia e depressione.

Dal punto di vista regolamentare l’animale deve essere mantenuto, dal suo proprietario, in condizioni compatibili con gli imperativi biologici della sua specie; è proibito esercitare maltrattamenti nei confronti degli animali domestici e degli animali selvatici domati o tenuti in cattività, come privarli di cibo o di acqua, dar loro un habitat o un ambiente inappropriato oppure utilizzare dispositivi di contenimento inappropriati o dannosi.

Le più frequenti condotte di maltrattamento si identificano come segue:

  • Mancata somministrazione di cibo nella giusta quantità e qualità, così come di acqua pulita adatta al consumo.

  • Mantenere l’animale in condizioni malsane, senza fornire un’adeguata igiene nel suo ambiente.

  • Costringere l’animale a lavorare per diverse ore continuate senza pause o quando non è in condizione di farlo.

  • Esercitare la violenza fisica utilizzando o meno strumenti che causano dolore, come cinture, fruste, ecc.

  • Sperimentare la forza fisica dell’animale costringendolo a tirare carrelli, a trasportare pesi in eccesso o a partecipare a combattimenti illegali.

  • Forzare o stimolare l’animale con farmaci e sostanze chimiche.

  • Abbandono.

Ecco alcuni esempi concreti: attraverso la sentenza n. 14734/2019 la Cassazione ha confermato la responsabilità penale del proprietario di alcune aziende agricole che faceva trasportare 63 asini, 12 dei quali manifestavano delle evidenti difficoltà a deambulare a causa delle unghie troppo lunghe. I giudici di legittimità hanno chiarito che la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, va considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali, specificando che assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, n. 46560 del 10/7/2015, Francescangeli e altro, Rv. 265267), prendendo in considerazioni situazioni quali, ad esempio, la privazione di cibo, acqua e luce (Sez. 6, n. 17677 del 22/3/2016, Borghesi, Rv. 267313) o il trasporto di bovini stipati in un furgone di piccole dimensioni e privo d’aria (Sez. 5, n. 15471 del 19/1/2018, P.G. in proc. Galati e altro, Rv. 272851). Nel caso di specie, è stato posto in evidenza come agli animali, a causa della lunghezza delle unghie, era impedita o comunque resa particolarmente difficoltosa la deambulazione (tanto che uno di essi non riusciva neppure ad alzarsi dal camion ove si trovava), esponendoli a grossi rischi durante l’alpeggio, dovendosi muovere su un terreno che non è piano.

Uccisione di animali (art. 544-bis Codice Penale)

“Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni.”

In tema di uccisione o maltrattamento di animali, la crudeltà si identifica con l'inflizione all'animale di gravi sofferenze per mera brutalità, mentre la necessità si riferisce ad ogni situazione che induca all'uccisione dell'animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l'aggravamento di un danno a sé o ad altri o ai propri beni, quando tale danno l'agente ritenga non altrimenti evitabile. (In un caso l'imputato in un procedimento penale per uccisione di animali è stato assolto perchè il Tribunale ha ritenuto che ricorresse la condizione di necessità per l'assenza dell'attualità del pericolo, in quanto l'imputato aveva ucciso due cani, ritenuti responsabili della morte di tre pecore, dopo che tale fatto era già avvenuto).

Per crudeltà va dunque intesa la causazione della morte con modalità o per motivi che urtano la sensibilità umana.

L'assenza di necessità richiama invece una nozione più ampia di quella di cui all'articolo 54 c.p., e cioè una necessità relativa, che rende non punibile la condotta, se posta in essere per soddisfare un bisogno umano, o fini produttivi legalizzati. Ad esempio la l. 20 luglio 2004, n. 189 ha previsto una serie di ipotesi in cui sussiste per presunzione la necessità sociale. Si tratta della caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, giardini zoologici, etc.

La causazione della morte rispecchia il delitto di omicidio (art. 575 c.p.), sia per quanto riguarda la condotta commissiva che omissiva.

I motivi per i quali chi uccide un animale non viene arrestato

Una persona che uccide un animale non viene arrestata perché il delitto di uccisione di animali viene punito con la pena massima di due anni, molto inferiore ai cinque anni di pena minima, stabiliti dalla legge perché si possa procedere all'arresto obbligatorio in flagranza, e inferiore anche ai tre anni di pena massima prevista per l’arresto facoltativo. Lo stesso si deve dire per il diverso delitto di maltrattamento di animali. Contro chi commette simili reati, si deve subito sporgere denuncia alle autorità, che, da parte loro, procederanno con le indagini rinviando a giudizio l’autore dell’uccisione o del maltrattamento di animali. Gli istituti previsti dal codice di procedura penale, quali la "messa alla prova" o la "sospensione condizionale della pena", unitamente ad altri istituti deflattivi, possono tuttavia sostanzialmente abbattere la pena comminata fino a tradursi, in alcuni casi, in una sostanziale impunità penale per il reo. Nel primo caso, "per reati di minore allarme sociale", l'imputato può ottenere la sospensione del procedimento penale purchè svolga lavori di pubblica utilità e si impegni a risarcire il danno; la sospensione condizionale della pena, anche questa prevista per reati ritenuti non gravi, permette invece di "sospendere" la pena per cinque anni a condizione che nel frattempo il reo non commetta altri reati. Nel caso poi dell'articolo 544 ter è lo stesso codice penale che lascia al giudice la possibilità di scegliere se infliggere una pena detentiva o pecuniaria.

Le nuove proposte legislative

Proprio a fronte di tale ultimo rilievo, il corpo principale delle nuove proposte prevede un inasprimento delle pene per i delitti contro il sentimento degli animali; alcuni dei disegni di legge citati (DDL n. 76 del 2019 e DDL n. 360 del 2019) si propongono di innalzare i limiti edittali minimi e massimi della pena detentiva e gli importi delle multe, così da valorizzare la funzione special-preventiva della pena.

Di particolare pregio appare poi la previsione di contrastare la diffusione di materiale audiovisivo e di immagini inerenti violenze e brutalità compiute sugli animali, e si prevedono aggravanti qualora l'autore di crimini contro gli animali realizzi immagini o video e ne dia divulgazione tramite strumenti telematici.

Dal punto di vista civilistico, la proposta di maggior rilievo attiene, in caso di divorzio o separazione del nucleo familiare, all'affido degli animali domestici al coniuge ritenuto dal giudice maggiormente capace a garantirne il benessere fisico e psicologico, e vengono inoltre previste anche nuove forme di affido condiviso con obbligo di dividere le spese.

Altre proposte attualmente in esame nelle aule parlamentari prevedono di consentire sempre l'accesso degli animali da compagnia anche in luoghi dove normalmente è vietato, nonchè l'obbligo di segnalare alle autorità competenti gli animali abbandonati o feriti.

 

Coronavirus: conseguenze penali per chi non rispetta le regole. I rischi e le possibili strategie difensive.

Coronavirus: conseguenze penali per chi non rispetta le regole. I rischi e le possibili strategie difensive.

Com'è noto, il Governo italiano ha introdotto una serie di regole fondamentali per contenere la diffusione del COVID-19, ed ha inoltre disposto che vengano effettuati, ad opera delle forze dell'ordine, controlli molto serrati.

Secondo i dati forniti dal Viminale, dall'11 al 17 marzo, le forze dell'ordine hanno effettuato oltre un milione di controlli, all'esito dei quali hanno denunciato 42.933 persone per non aver potuto fornire un motivo valido per circolare, ed altre 1.095 per false dichiarazioni a pubblico ufficiale. Per quanto riguarda gli esercizi commerciali, le denunce si attestano a 1473.

Regole e Sanzioni

Appare dunque utile riepilogare quali sono le prescrizioni imposte dalla legge, e quali le sanzioni per chi non le rispetta:

  • evitare spostamenti non motivati da «comprovate esigenze lavorative» «situazioni di necessità» oppure «motivi di salute», attestabili da un’autocertificazione da esibire alle forze dell’ordine (o ai militari ad esse equiparati);

  • vi è divieto assoluto per chi è sottoposto alla misura della quarantena o per chi ha contratto il virus di uscire di casa;

  • è fortemente consigliato a chi ha sintomi compatibili con il virus o la febbre oltre 37,5 ° C di restare presso il proprio domicilio e di limitare al massimo i contatti sociali;

  • alcune attività, commerciali o meno, che comunque presuppongono la compresenza di più persone, sono chiuse o comunque altrimenti regolamentate.

Per ciò che attiene alle sanzioni, è necessario evidenziare il carattere penale delle stesse; il mancato rispetto degli obblighi ivi descritti, infatti, viene punito ai sensi dell'art. 650 c.p - rubricato “Inosservanza dei comportamenti dell'Autorità” - di cui per comodità si riporta interamente il testo:

«Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a 3 mesi, o con l'ammenda fino a 206 euro.»

Cosa succede dunque a chi viola le prescrizione richiamate nel decreto?

Se veniamo fermati e non saremo in grado di giustificare il nostro spostamento, le forze dell'ordine trasmetteranno la notizia di reato alla Procura della Repubblica territorialmente competente, e saremo dunque sottoposti ad un procedimento penale per violazione dell'art. 650 c.p.

Il significato di tale norma appare, in prima lettura, chiaro: se il fatto non costituisce più grave reato, ci sarà l'arresto, oppure, in alternativa, l'ammenda fino a 206 euro. Tuttavia, appare opportuno chiarire il concetto di ammenda, e le conseguenze (gravi) che dal pagamento della stessa possono derivare.

L'ammenda, ai sensi dell'art. 26 del Codice Penale, è una pena pecuniaria e consiste nel pagamento allo Stato di una somma compresa tra 2 e 1032 euro.

È fondamentale chiarire che questa non può essere equiparata ad una banale violazione del Codice della Strada per la quale è sufficiente pagare il bollettino contenuto nel verbale di accertamento, come nel caso di un divieto di sosta.

Al contrario, l'ammenda è una sanzione penale, al pari della reclusione e dell'arresto, ed il pagamento della stessa comporta l'iscrizione nel casellario giudiziale con tutte le pesanti conseguenze che questo comporta anche sulla vita sociale e professionale (appalti, concessioni, partecipazione a concorsi pubblici, etc.).

Strategie difensive

Come difendersi? Innanzitutto, è fortemente consigliabile non pagare l'ammenda, per evitare di incorrere nelle gravi conseguenze sopra descritte. 

Sarà sicuramente utile contattare il proprio Avvocato di fiducia, poichè possa verificare se sia esperibile il procedimento di oblazione; eventualmente, potrebbe essere vantaggioso attendere che venga notificato il decreto penale di condanna, cioè il provvedimento con il quale il Giudice stabilisce che l'imputato deve pagare la somma di denaro.

Il decreto penale di condanna prevede un termine di 15 giorni per opporsi chiedendo l’oblazione. Ma di cosa si tratta?

L’oblazione (artt. 162, 162-bis c.p. e 141 disp.att. c.p.p.) è un'autonoma causa di estinzione del reato e consiste nel pagamento volontario di una determinata somma di denaro.

Qual è la differenza con l'ammenda?

Se è vero che l’oblazione, come l'ammenda, comporta il pagamento di una somma di denaro, il vantaggio dell’oblazione è che ad essa corrisponde un effetto estintivo del reato, il quale dunque non verrà iscritto nel casellario giudiziale dell'imputato.

Infatti, qualora sussistano le condizioni per accedere all'oblazione, la pena prevista dal reato di cui all'art. 650 c.p. non sarà eseguita, con il fondamentale risultato che, per l'imputato, non vi saranno le gravi conseguenze penali sopra richiamate.

Non tutti però possono accedere all'oblazione; sarà infatti necessario rivolgersi al proprio Avvocato per assicurarsi del buon esito del procedimento.

Altre fattispecie di reato

Restano comunque applicabili le pene per gli altri reati, dolosi o colposi, eventualmente commessi.

In primo luogo vi è l'ipotesi in cui la persona fermata fornisca od esibisca un' autocertificazione falsa (ad esempio dichiari che si stava recando al lavoro e tale circostanza dovesse poi risultare falsa). In tale ipotesi il reato contestato non sarà più il 650 c.p. sopra citato, bensì potrebbe essere il più grave 483 c.p., rubricato “falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” (peraltro non oblazionabile).

In secondo luogo, per fare un altro esempio immediatamente comprensibile, colui che - pur non consapevole di essere affetto dal virus - viola le regole di prudenza raccomandate, causando il contagio di una o più persone, potrebbe essere sottoposto ad un ulteriore procedimento penale - questo per lesioni colpose - se dal contagio ne deriva una malattia. Qualora invece derivasse la morte della persona contagiata, l'accusa si tramuterebbe in quella, ben più grave, dell' omicidio colposo, di cui all'art. 589 c.p.: “Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni. …” è evidente che la colpa, in quest'ultima ipotesi, è proprio quella di non aver ottemperato al divieto di non uscire di casa. Cionondimeno, per completezza, occorre precisare che l'accusa dovrebbe altresì dimostrare il “nesso causale” fra la condotta dell'agente e l'evento-morte della parte offesa, ossia dovrebbe fornire la prova - al di là di ogni ragionevole dubbio - che il contagio è avvenuto proprio ad opera dell'indagato, e ciò, al momento attuale, appare francamente di rilevante difficoltà.

Tuttavia, per esigenze di sinteticità e per non entrare troppo nei “tecnicismi” del diritto penale, non è possibile in questa sede analizzare oltre le peculiarità che possono presentarsi nel singolo caso, pertanto è sempre consigliabile rivolgersi al proprio Avvocato che fornirà una consulenza approfondita in materia.

Aggiornamento 25 marzo 2020

Si rilevano importanti novità per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio per il mancato rispetto delle misure di limitazione alla circolazione delle persone.

Ai sensi dell'art. 4 del D.L. 19 del 25/03/2020 viene adesso prevista, salvo che il fatto costituisca altro reato, la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 ad euro 3000, non applicandosi le sanzioni contravvenzionali previste dall'art. 650 c.p, che ricordiamo essere l'arresto fino a 3 mesi o l'ammenda fino ad euro 206. Da ultimo, occorre evidenziare che se tale violazione è commessa con l'utilizzo di un veicolo, le sanzioni sono aumentate fino ad un terzo.

Si pone quindi il problema di cosa avviene per chi, avendo contravvenuto alle predette misure contenitive prima dell'entrata in vigore di quest'ultimo D.L., si è visto contestare la violazione dell'art. 650 c.p. con conseguente trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica territorialmente competente.

Il comma 8 dell'art. 4 del D.L. appena citato prevede che le nuove norme che sostituiscono le sanzioni penali precedenti con le sanzioni amministrative attuali si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà.

Ciò appare del tutto coerente con il fondamentale principio di diritto penale che prevede la retroattività della “lex mitior”: tale garanzia si è progressivamente consolidata nella giurisprudenza costituzionale, che ha precisato come l’art. 3 Cost. «impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, «non sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)» (sentenza n. 236 del 2011).

Potrebbero tuttavia sorgere dubbi sulla retroattività di sanzioni di natura prettamente amministrativa, nel caso di specie la multa da euro 400 ad euro 3000.

Può dunque essere utile ricordare la recente sentenza della Corte Costituzionale, la n. 63 del 21 marzo 2019, che postula la retroattività anche della sanzione amministrativa, purché favorevole; la Corte ribadisce come infatti alle sanzioni amministrative «che abbiano natura e finalità punitiva» sia senz'altro applicabile il complesso delle garanzie della materia penale, compresa quella della retroattività favorevole. Ciò appare invero coerente con la logica sottesa al riconoscimento della retroattività favorevole nell'ottica interna dell’art. 3 Cost. Il vincolo dell’uguaglianza/ragionevolezza fa sì che anche rispetto alle sanzioni punitive non sia costituzionalmente ammissibile continuare a sanzionare un fatto che nell'ordinamento giuridico ha perso il proprio carattere di illiceità, né continuare a punirlo sulla base di un apprezzamento di disvalore che sia mutato “in bonam partem”, nel senso cioè di un’attenuazione della risposta punitiva.

È probabilmente per questo motivo che è prevista l'applicazione della misura minima ridotta alla metà (e dunque 200 euro).

Ingiuria e diffamazione online; la prova dell'indirizzo IP e la differente collaborazione di Facebook e Linkedin con la giustizia italiana

Ingiuria e diffamazione online; la prova dell'indirizzo IP e la differente collaborazione di Facebook e Linkedin con la giustizia italiana

Ingiuria e diffamazione: presupposti normativi e differenze


Per individuare correttamente i presupposti normativi dei reati di ingiuria e diffamazione, potrebbe essere utile riportare il testo degli artt. 594 e 595 del Codice Penale:

Art. 594 c.p.Ingiuria” [abrogato]:

Chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516.

Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.

La pena è della reclusione fino ad un anno o della multa fino a euro 1.032, se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato.

Le pene sono aumentate qualora l'offesa sia commessa in presenza di più persone.”

Art. 595 c.p. “Diffamazione:

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.

Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.

Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad euro 516. Se l'offesa è recata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.”

Come si evince agevolmente dalla lettura degli articoli richiamati, entrambe le fattispecie attengono ai delitti contro l'onore. Ciò significa che oggetto di tutela sono i beni giuridici dell'onore e del decoro della persona; esiste infatti uno specifico interesse dell'ordinamento giuridico alla protezione della personalità morale e sociale dell'individuo.

Tuttavia, con la riforma in materia di abrogazione di reati attuata con il d.lgs. n. 7/2016, il delitto di ingiuria è stato abrogato, ma al suo posto è stato contestualmente introdotto un corrispondente illecito civile sottoposto a sanzione pecuniaria.

Ciò significa che, come vedremo in seguito, chi subisce ingiurie rivolte alla propria persona, potrà comunque agire giudizialmente per vedere tutelato il proprio onore. Ma che cosa si intende per onore?

L'onore è un bene giuridico di antica tradizione che può essere definito come il complesso delle condizioni fisiche, morali o intellettuali, che concorrono a determinare il pregio dell'individuo nell'ambiente in cui vive [Antolisei]. È possibile affermare che in esso coesistono sia una componente soggettiva, intesa come il sentimento che l'individuo ha della propria moralità, sia una componente oggettiva, consistente nella stima o opinione di cui egli gode all'interno della comunità.

Nel nostro ordinamento il concetto di onore assurge ad interesse di rango costituzionale, ed infatti trova riconoscimento nell'art. 3 della Costituzione il quale, affermando la pari dignità sociale di tutti i cittadini, mira appunto a vietare ai singoli l'espressione di giudizi di indegnità rivolti ad altri membri.

In quanto bene costituzionalmente riconosciuto, l'onore viene inoltre incluso fra i diritti inviolabili di cui all'art. 2 Cost.

Il criterio distintivo maggiormente evidente tra l'ingiuria e la diffamazione risiede nella presenza o meno dell'offeso, ed esprime la diversa gravità della lesione arrecata al bene giuridico protetto, che è tanto maggiore quando l'offeso non è in grado di difendersi adeguatamente e rispondere all'offesa che gli viene rivolta. In realtà a parere di chi scrive, tutelando entrambe lo stesso bene, cioè l'onore in senso personalistico, l'offesa all'onore sarebbe meno grave se pronunciata in presenza del solo offeso, o comunque percepita da lui soltanto, e più grave se pronunciata, o comunque percepita, fra più persone, presente o meno anche l'offeso.

In che cosa consiste l'offesa “all'altrui reputazione”?

Detto requisito consiste nell'aggressione dell'onore nel suo aspetto oggettivo, ossia nella stima che un individuo gode fra i consociati.

Il delitto di ingiuria, è un reato di pericolo, ai fini del cui perfezionamento è sufficiente l'utilizzo di espressioni potenzialmente lesive della dignità e dell'integrità del soggetto che le riceve. Ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico del reato è, pertanto, sufficiente il dolo generico, cioè la consapevolezza di offendere l'onore e la reputazione di altro soggetto.

Sulla relatività del concetto di offesa all onore, e sul giudizio circa il carattere diffamatorio o meno di un addebito, il giudice dovrà valutare caso per caso e tener conto di tutte le circostanze della fattispecie concreta e dei criteri di valutazione usuali nell'ambiente in cui il fatto ha avuto luogo. Nel delitto di diffamazione, come in quello di ingiuria, l'offesa può essere arrecata con qualsiasi mezzo ed in qualunque modo idoneo, e cioè sia con modalità direttamente ed oggettivamente aggressive, sia con modalità che, oggettivamente non lesive, tali diventano per le forme con cui vengono estrinsecate.

  • Ingiuria e diffamazione tramite internet: che cosa occorre provare?

Dottrina e giurisprudenza ritengono unanimemente che ingiuria e diffamazione possano realizzarsi anche via internet, in quanto lo scambio di informazioni sulla rete costituisce un modo di comunicare con altre persone; per la commissione del reato possono essere adoperate tutte le modalità d'uso della rete, ad esempio e-mail contenenti addebiti offensivi, commenti in social network o comunque visibili attraverso siti web, etc.

La Cassazione Penale, a proposito dei commenti offensivi attraverso l'uso del social network Facebook, ha avuto modo di chiarire che tale fattispecie integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, c.p., poiché trattasi di una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone [Cass. Pen. sent. n. 24431 del 2015].

Tuttavia, quando si parla di reati commessi via Facebook, o comunque via internet in generale, è necessario verificare che i profili dai quali provengono gli addebiti offensivi siano effettivamente riconducibili all'imputato.

Cosa succede se il social network, o il provider del servizio internet, non collaborano con le indagini?

Come chiarisce il Tribunale di La Spezia, con sentenza del 05/12/2019, in tema di diffamazione attraverso i social network Facebook e Linkedin, è notorio che Facebook non fornisce indicazioni all'autorità giudiziaria italiana in relazione all'utente che si cela dietro un nickname, mentre con Linkedin è possibile acquisire elementi utili all'indagine.

Se il social network non collabora nell'identificazione dell'autore del reato, le indagini devono essere comunque approfondite per individuare chi ha scritto il post. Ad affermarlo è la Cassazione Penale (n. 42630 del 2018), che ha imposto ai giudici di merito di motivare adeguatamente le ragioni dell'archiviazione a carico del presunto autore della diffamazione online.

Il caso riguardava alcuni post offensivi pubblicati su Facebook da un utente la cui identità era rimasta incerta, a seguito del rifiuto dei gestori di Facebook di fornire l'indirizzo IP dell'autore del messaggio offensivo. Il decreto di archiviazione disposto dal Gip veniva perà impugnato in Cassazione dalla persona offesa che lamentava l'assoluta mancanza di indagini suppletive e di analisi degli ulteriori indizi forniti dalla persona offesa.

Da qui la pronuncia della Suprema corte che ha imposto ai giudici di merito di andare oltre la mancata collaborazione dei social network e di approfondire tutti gli elementi utili alle indagini.

Per la condanna per diffamazione tramite social network, infatti, è necessario l'accertamento dell'indirizzo IP cui riferire il messaggio offensivo. Occorre dunque una puntuale verifica dell'autorità giudiziaria dell'indirizzo IP di provenienza, cioè del codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico al momento della connessione ad una determinata postazione del servizio telefonico, permettendo così di individuare la linea.

In caso contrario, non si avrebbe il massimo grado di certezza possibile in ordine all'attribuzione della responsabilità, essendo ben possibile un utilizzo abusivo del nickname dell'account Facebook.

Merita un'ultima disamina la recentissima sentenza della Cassazione Penale, n. 10905 del 25/02/2020, in tema di offese ad uno dei partecipanti su una chat di gruppo.

Secondo la richiamata sentenza, in questo caso, peraltro assai frequente, sussiste l'ipotesi di ingiuria, e non di diffamazione.

Ciò in quanto l'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione, riporta la sentenza, è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore. Ciò non significa che l'offeso rimarrà privo di tutela; l'ingiuria è comunque riprodotta nell'art. 4., co. 1, lett. a), del decreto già richiamato, e costituisce fatto che, se doloso, obbliga, oltre al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile da cento ad ottomila euro.

La responsabilità del datore di lavoro per il contagio da Covid-19 del dipendente o del cliente della propria attività. Quando sussiste?

La responsabilità del datore di lavoro per il contagio da Covid-19 del dipendente o del cliente della propria attività. Quando sussiste?

Il presente articolo prende spunto dalla circolare n. 22 del 20 maggio 2020, ove l'Inail è intervenuto sul tema delle responsabilità datoriali da contagio Covid-19 nei luoghi di lavoro ex art. 42 del D. L. 18/2020 (c.d. "decreto Cura Italia").

Con la riapertura graduale delle attività, il timore principale degli imprenditori era quello delle possibili responsabilità giuridiche in capo al datore di lavoro con riferimento a tutte le posizioni di garanzia presenti in azienda (ai sensi del d.lgs. 81/2008), nel caso in cui un lavoratore od un cliente dovessero risultare positivo al Covid-19.

Dubbi e perplessità sorgevano in particolare dalla precedente circolare esplicativa n. 13 del 3 aprile 2020, nella quale l'Istituto ha inquadrato l'infezione da Covid-19 contratta durante lo svolgimento dell'attività lavorativa all'interno della disciplina degli infortuni sul lavoro, senza però chiarire le implicazioni giuridiche di tale qualificazione rispetto alla posizione di garanzia circa la salute e la sicurezza dei dipendenti rivestita dal datore di lavoro. 

Com'è noto infatti, il datore di lavoro risponde della mancata osservanza delle norme a tutela dell'integrità fisica dei prestatori di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia che discende, in primo luogo, dall'art. 2087 c.c.

A fronte delle numerose proteste sollevate dal mondo degli imprenditori, che temeva di doversi assumere oneri, costi e responsabilità (anche penali) nel caso in cui un dipendente fosse risultato positivo al covid-19, l'Inail ha ritenuto di dover precisare, con comunicato del 15 maggio scorso, l'irrilevanza del riconoscimento della malattia professionale ai fini dell'accertamento di eventuali responsabilità civile e penale dei datori di lavoro. 

Tale comunicazione è stata poi seguita dalla recentissima circolare n. 22/2020, nella quale si è affrontato più dettagliatamente l'ambito della tutela infortunistica nel caso in cui il dipendente contragga il virus nello svolgimento dell'attività lavorativa.

In quest'ultima circolare si conferma la qualificabilità dell'infezione da Covid-19 come infortunio sul lavoro, ma tale riconoscimento è comunque subordinato alla dimostrazione, anche per presunzione semplice, che l'evento infettante si sia verificato durante lo svolgimento dell'attività lavorativa dovendo comunque ricorrere, in tal senso, indizi gravi, precisi e concordanti (ferma restando, la possibilità di prova contraria).

L'elemento di interesse per il datore di lavoro, tuttavia, sta nel fatto che il riconoscimento dell'origine professionale del contagio costituisce «giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio».

Pertanto, qualora fossero integrati tutti i presupposti di accesso alle prestazioni assicurative dell'Inail, questi non potrebbero pertanto condurre ad un'automatica responsabilità civile e penale dell datore di lavoro, così come avviene del resto in qualsiasi altra ipotesi di infortunio o malattia professionale.

Eventuali profili di responsabilità del datore di lavoro dovranno essere dimostrati dal dipendente che ha contratto il virus. Soddisfare tale onere della prova appare tuttavia particolarmente difficile, dal momento che quest'ultimo dovrà riuscire a provare l'esistenza del nesso eziologico tra l'evento-malattia e condotta non regolare, nonché l'imputabilità, a titolo di dolo o colpa, al datore di lavoro del danno alla salute lamentato.

In sede penale, tuttavia, la molteplicità delle modalità e delle occasioni di contagio e la estrema volatilità del virus rendono in ogni caso assai arduo assolvere l'onere probatorio che grava in capo al Pubblico Ministero (derivante dal principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost) che consiste nel verificare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il contagio è avvenuto all'interno del luogo di lavoro e che questo è causa di un comportamento omissivo, colposo o doloso, del datore di lavoro.

Similmente, in sede civile, la responsabilità del datore di lavoro richiede quantomeno che venga accertato un suo comportamento colposo nella determinazione dell'evento, come statuito dal recente e consolidato orientamento della Corte di Cassazione che esclude l'esistenza di un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile per evitare qualsiasi genere danno [cfr. Cass. Civ 3282/2020].

Da qui si evince l'importanza, per quest'ultimo, di operare una corretta compliance in materia di prevenzione di contagio da Covid-19, così che possano essere escluse eventuali responsabilità, sia civili che penali.

Il datore di lavoro, in ogni caso, non è tenuto a garantire un ambiente di lavoro a "rischio zero", neanche potendosi ragionevolmente pretendere l'adozione da parte sua di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l'integrità psico-fisica del lavoratore. 

[ « In tema di infortuni sul lavoro, va esclusa la responsabilità del datore di lavoro che, oltre ad avere fornito i necessari mezzi di protezione, ha impartito le opportune istruzioni sull'uso degli stessi ed esercitato una costante attività di vigilanza, laddove l'infortunio occorso sia addebitabile a una condotta del lavoratore imprevedibile ed esorbitante rispetto alle direttive impartite, sì da porsi quale causa esclusiva dell'evento. » Massima Cass. Civ. 3282/2020].

L'imprenditore pertanto dovrà adempiere con priorità massima agli obblighi di informazione e formazione ed alla attività di prevenzione, che spazia dalla misurazione della temperatura corporea dell'utente tramite termoscanner, fino alla tenuta del registro degli accessi aziendali. Fondamentale poi il mantenimento del distanziamento sociale sui luoghi di lavoro, anche attraverso interventi di deroga sull'orario o sui turni di lavoro, oltre che la messa a disposizione di materiale protettivo, quali mascherine, guanti, gel igienizzanti, ecc., il tutto con la necessaria sorveglianza del datore di lavoro circa l'effettiva adozione delle misure preventive da parte dei dipendenti.

Dott. Tommaso Scarabicchi 
Condotta violenta nel campo da calcio; la responsabilità penale dell'atleta.

Condotta violenta nel campo da calcio; la responsabilità penale dell'atleta.

La vicenda processuale, conclusasi in Cassazione nel 2005, riguardava un episodio accaduto il 3 marzo 1995 durante un incontro di calcio tra le squadre “Nuova Salzano” e “Jesolo 91”, campionato Eccellenza veneto. 

In particolare, sugli sviluppi di un calcio d'angolo, il portiere dello Jesolo aveva respinto, in elevazione, il pallone e subito dopo, in fase di ricaduta, era stato colpito dal difensore avversario con una gomitata all'addome. Immediatamente soccorso, era stato trasportato in ospedale dove aveva subito una splenectomia e la saturazione di una perforazione intestinale. A seguito dell'infortunio occorso, il portiere riportava quindi la perdita dell'uso dell'organo della milza, e per questo motivo il difensore avversario veniva giudicato, in primo grado, colpevole del reato di lesioni volontarie aggravate. In secondo grado, la Corte d'Appello di Venezia dichiarava di non doversi procedere nei confronti dell'imputato perché il reato era estinto per intervenuta prescrizione, ma confermava le disposizioni relative al risarcimento danni inerenti all'azione civile.

Conclusosi così un lungo iter processuale in Corte di Cassazione, emergeva dalle risultanze processuali che l'evento si era verificato accidentalmente nell'ambito di un'ordinaria azione di gioco, non risultando alcun elemento rilevante per attribuire la volontarietà dell'azione in capo all'imputato (così che il reato veniva riqualificato, ai sensi dell'art. 590 c.p., come fatto colposo).

La sentenza, tuttavia, è di particolare importanza poiché in essa i giudici di legittimità rilevano come, in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dell'attività sportiva agonistica, sia possibile individuare una scriminante non codificata, che trae la propria legittimità, principalmente, dal ruolo di assoluto rilievo che l'ordinamento giuridico assegna allo sport: tale scriminante attiene alla cosiddetta area del “rischio consentito”.

La Suprema Corte statuisce infatti che, in ambito sportivo, l'area del rischio consentito coincide con quella del rispetto delle specifiche regole di gioco e dei canoni di condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina: questi ultimi individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), « ...il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport ».

Dal momento che l'utilizzo della forza fisica può essere causa di gravi infortuni per l'avversario, il rispetto delle regole segna il discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva. «..Ma neppure in ipotesi di violazione di queste norme viene travalicata l'area del rischio consentito, ove la stessa violazione non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un'azione che, nella concitazione o trance agonistica, può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette».

Se ne deduce, dunque, che in tutti quei casi in cui l'intervento falloso, o comunque contrario al regolamento, sia voluto e deliberatamente piegato al conseguimento di un'utilità, con accettazione del rischio di pregiudicare l'altrui integrità fisica, allora si entra nell'area della condotta penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della colpa.

In particolare il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica (si pensi al caso in cui un giocatore che nutre risentimenti personali nei confronti dell'avversario approfitti della partita di calcio per commettere deliberatamente un atto di violenza).

Quando, invece, la violazione delle regole che porta ad un infortunio avviene nel corso di un'ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione, se pur consapevole, è finalizzata non ad arrecare un danno all'avversario, ma al conseguimento – in forma illecita e dunque antisportiva – di un determinato obiettivo agonistico (si pensi al caso del cosiddetto fallo “tecnico”, con il quale il giocatore colpisce volontariamente l'avversario per interrompere una potenziale occasione da gol).

Da ultimo, all'esito di questa ricostruzione, è possibile affermare che, in tema di lesioni personali procurate nel corso di attività sportiva, si verifica il superamento del c.d. rischio consentito, con il conseguente profilarsi della responsabilità per dolo o colpa, allorquando viene posta a repentaglio coscientemente l'incolumità del giocatore avversario, che pur acconsente un comportamento antagonistico anche rude, ma non esorbitante dal dovere di lealtà fino a trasmodare nel disprezzo per l'altrui integrità fisica. Tuttavia, è utile puntualizzare che l'accertamento dell'eventuale superamento del rischio consentito - e dunque della contestuale volontà di mettere a repentaglio l'incolumità dell'avversario - è questione di fatto, da risolvere caso per caso in relazione al tipo di pratica sportiva.

La tutela dei diritti degli animali

La tutela dei diritti degli animali

Le norme fondamentali per la tutela degli animali

  • la legge n. 281 del 1991

La normativa italiana disciplina alcuni aspetti fondamentali con la legge n. 281 del 1991, definita «legge quadro in materia di tutela degli animali d'affezione e prevenzione del randagismo».

Tale legge è di particolare importanza poichè enuncia il principio generale secondo il quale “Lo stato promuove e disciplina la tutela degli animali d'affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l'ambiente.”

Con gli articoli 1 e 2, in particolare, lo Stato si impegna a riconoscere agli animali d'affezione il diritto alla vita, ne vieta la crudeltà e la soppressione senza giustificato motivo, promuove il controllo della popolazione di animali sia domestici che randagi, e riconosce esplicitamente la funzione sociale di enti ed associazioni protezionistiche; con gli articoli 3 e 4 demanda alle competenze regionali il compito di rendere applicative le norme nazionali emanando propri provvedimenti, mentre specifici compiti e responsabilità vengono attribuiti alle diverse Istituzioni ed Autorità di controllo competenti nella materia, nonché ai proprietari degli animali.

Link qui: (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_911_allegato.pdf )


  • Accordo del 6 febbraio 2003

Un'altra delle norme principali è l'accordo del 6 febbraio 2003 tra Stato Stato e Regioni, con il quale si amplia il campo di applicazione delle tutele degli animali, che spesso era limitato esclusivamente a cani e gatti, definendo quale «animale da compagnia» ogni animale tenuto dalll'uomo per compagnia o affezione senza fini produttivi o alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all'uomo, come il cane per disabili e gli animali da pet therapy. Parimenti importante è l'articolo 2, con il quale si identificano responsabilità e doveri del detentore di animali da compagnia, tra cui: rifornirli di cibo ed acqua in quantità sufficienti, assicurargli le necessarie cure sanitarie ed un'adeguata possibilità di esercizio fisico, assicurare la regolare pulizia degli spazi ove questi dimorano, prendere ogni possibile precauzione per impedirne la fuga e, da ultimo, garantire la tutela di terzi da aggressioni.

Link qui: (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_909_allegato.pdf)


  • Legge n. 189 del 2004

Dal punto di vista del diritto penale, la norma di riferimento è la legge n. 189 del 2004, definita «Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate».

Vengono qui introdotte nuove fattispecie di reato, e vengono aggiunti e riformati alcuni articoli del codice penale, i più importanti dei quali sono l'art. 544-bis, che punisce chi senza necessità cagiona la morte di un animale con la reclusione da quattro mesi a due anni, ed il 544-ter, che sanziona chi maltratta, sevizia, e compie violenze sugli animali con la reclusione da tre a diciotto mesi.

Tali pene, in realtà, appaiono relativamente blande se si considera che è in generale consentito il ricorso alla sospensione condizionale della pena fino a 18 mesi o ad altri istituti deflattivi che possono abbattere la pena comminata fino a tradursi in una sostanziale impunità per il reo.

Link qui: (https://www.camera.it/parlam/leggi/04189l.htm)


Le nuove proposte legislative

Proprio a fronte di tale ultimo rilievo, il corpo principale delle nuove proposte prevede un inasprimento delle pene per i delitti contro il sentimento degli animali; alcuni dei disegni di legge citati (DDL n. 76 del 2019 e DDL n. 360 del 2019) si propongono di innalzare i limiti edittali minimi e massimi della pena detentiva e gli importi delle multe, così da valorizzare la funzione special-preventiva della pena.

Di particolare pregio appare poi la previsione di contrastare la diffusione di materiale audiovisivo e di immagini inerenti violenze e brutalità compiute sugli animali, e si prevedono aggravanti qualora l'autore di crimini contro gli animali realizzi immagini o video e ne dia divulgazione tramite strumenti telematici.

Dal punto di vista civilistico, la proposta di maggior rilievo attiene, in caso di divorzio o separazione del nucleo familiare, all'affido degli animali domestici al coniuge ritenuto dal giudice maggiormente capace a garantirne il benessere fisico e psicologico, e vengono inoltre previste anche nuove forme di affido condiviso con obbligo di dividere le spese.

Altre proposte attualmente in esame nelle aule parlamentari prevedono di consentire sempre l'accesso degli animali da compagnia anche in luoghi dove normalmente è vietato, nonchè l'obbligo di segnalare alle autorità competenti gli animali abbandonati o feriti.

Mascherine: quali criteri per stabilire se c'è l'obbligo di indossarla?

Mascherine: quali criteri per stabilire se c'è l'obbligo di indossarla?

Con l'ordinanza “Ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19” del 16 agosto 2020, il Ministero della Salute ha disposto la sospensione delle attività di ballo in discoteche e locali assimilati ed ha altresì previsto l'obbligo di utilizzare dispositivi di protezione delle vie respiratorie anche all'aperto, nei luoghi «ove per le caratteristiche fisiche sia più agevole il formarsi di assembramenti anche di natura spontanea e/o occasionale».

Di fronte ad una disposizione che inevitabilmente presenta ampi margini di discrezionalità, spetta dunque al singolo cittadino operare una valutazione sul rischio di assembramento e sulla opportunità di indossare la mascherina. Tale valutazione, tuttavia, potrebbe non coincidere con quella dell'agente adibito al controllo che, opinando diversamente, potrebbe decidere di irrogare la ben nota sanzione prevista dall' art. 4 D.L. 25 marzo 2020 (da 400 a 3000 euro).

Una delle censure più frequenti che vengono mosse al Legislatore concerne proprio l'eccessiva mancanza di specificità nella formulazione della norma; ed invero l'applicazione dell'ordinanza in esame presuppone un'interpretazione (di concetti quali «rischio», «affollamento», «assembramento») che non consente di far riferimento a criteri certi, stabili ed oggettivi (quali possono essere, a titolo esemplificativo, l'estensione di un'area dove vige il divieto di sosta o la fissazione di un limite di velocità da non superare).

Nel caso attuale, la vaghezza del testo appare come un elemento del tutto necessario ed imprescindibile se si pensa alla moltitudine e varietà di fattispecie che possono occorrere in questa materia: è infatti particolarmente arduo, se non impossibile, stabilire a priori - per ogni città o paese italiano - in quali quartieri, in quali vie, in quale piazze sussista il concreto rischio di assembramento e procedere con una rubricazione strada per strada, poiché ne risulterebbe un'operazione elefantiaca, esageratamente dispendiosa e senza alcuna garanzia di validità nell'immediato futuro (anche considerando che i flussi di persone, specie quelli turistici, sono indubbiamente legati ad elementi variabili ed oscillatori) .

A parere di chi scrive, l'astrattezza della norma non si traduce necessariamente in un vizio di indeterminatezza, purchè dalla formulazione della stessa sia comunque possibile ricavare dei principi generali, applicabili più o meno agevolmente al caso concreto. Ed è proprio il buonsenso e la discrezionalità del singolo, chiamato a mettere in pratica tali principi, a cui fa riferimento l'ordinanza in esame.

Si pensi ad esempio al corso cittadino, alle piazze del centro storico ed alle vie attigue: è sicuramente probabile il formarsi di assembramenti di natura spontanea e/o occasionale. In queste strade sarà sicuramente obbligatorio indossare la mascherina. Si pensi anche ai viali, ai lungomari, ai parchi pubblici, alle strade antistanti bar, ristoranti e locali notturni ed alla facilità con cui avviene la formazione di gruppi di persone che stazionano in queste aree.

Per contro, non sarà obbligatorio tenere un dispositivo di protezione personale in luoghi scarsamente frequentati, in aree boschive, in campagna o nelle immediate vicinanze di casa propria se non si abita in una zona particolarmente affollata.

Tuttavia, come si è già detto, è impossibile procedere con una elencazione esaustiva di ogni possibile situazione che può presentarsi al cittadino, e ciò determina i già richiamati margini di discrezionalità che il Legislatore lascia al singolo (ed all'autorità che effettuerà i controlli).

Al fine di evitare una sanzione amministrativa, occorre dunque tenere a mente le regole di cautela che sono state divulgate dal Ministero della Salute, ed in via generale indossare i dispositivi di protezione in ogni occasione in cui non sia possibile rispettare il ben noto distanziamento sociale.

Da ultimo, è appena il caso di precisare che, in sede di controllo, la astrattezza di una norma o di un regolamento non sfocia automaticamente in valutazioni arbitrarie dell'autorità preposta, frutto di interpretazioni personali più o meno permissive o severe: è sempre possibile, in caso di sanzione ritenuta illegittima, il ricorso al Prefetto o al Giudice di pace competente.

Revirement della Suprema corte di Cassazione sul diritto al mantenimento del figlio maggiorenne.

Revirement della Suprema corte di Cassazione sul diritto al mantenimento del figlio maggiorenne.

>Diritto al mantenimento del figlio maggiorenne. La Corte di Cassazione cambia idea.

Nota a Cassazione Civile, Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183 - Pres. Giancola, Rel. Nazzicone

La Suprema Corte con l’ordinanza n. 17183/2020 affronta il tema dell’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne non indipendente economicamente e lo fa innovando profondamente rispetto all'impostazione tradizionale.

Nel caso di specie, è la madre Caia (nome di fantasia, ndr) a proporre ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello, che, in riforma della decisione del giudice di prime cure che aveva ridotto l’assegno di mantenimento in favore della medesima per il figlio Sempronio da Euro 300,00 a Euro 200,00, ha revocato con decorrenza dal 1^ dicembre 2015 il suddetto assegno, nonché l’assegnazione dell’ex casa familiare.

La Corte territoriale, in particolar modo, ha sostenuto che l’obbligo del genitore al mantenimento del figlio maggiorenne viene meno quando quest’ultimo raggiunge la capacità di mantenersi da sé da ogni punto di vista, anche economico e che detta capacità, salvi comprovati deficit, superati i trenta anni di età si deve presumere.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso Caia deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 148, 315-bis, 326-bis, 337-sexies e 337-septies c.c. per aver la Corte di merito errato nel ritenere il figlio Sempronio (nome di fantasia, ndr) capace di mantenersi autonomamente, atteso che, se è vero che è ultratrentenne, è altrettanto vero che lavora come insegnante di musica precario, onde manca il comprovato raggiungimento di una effettiva e stabile indipendenza economica.
Investita della questione la prima sezione civile della Corte di Cassazione, pur non ribaltando il risultato finale a cui è pervenuta la Corte di Appello, si concentra sull’esame dell’art. 337-septies comma 1^ c.c. da cui deduce, discostandosi in modo del tutto sorprendente dal proprio orientamento costante, l’automatica estinzione del diritto del figlio ad essere mantenuto dal genitore al compimento della maggiore età.

Orbene, prima dell’ordinanza in esame, la giurisprudenza riteneva in modo del tutto pacifico che l’obbligo di mantenimento gravante sul genitore non cessasse automaticamente al raggiungimento della maggiore età del figlio ma solo in seguito al conseguimento della sua autosufficienza economica da intendersi come capacità di provvedere a se stessi, di far ingresso nel mondo del lavoro e di costruirsi un proprio nucleo familiare. Capacità che si presumeva acquisita nel figlio adulto, di età superiore ai trenta anni, che avesse terminato già da un certo lasso di tempo il percorso di studi prescelto.

Il ragionamento che si faceva era il seguente.
Con la maggiore età del figlio vengono meno solamente i poteri di rappresentanza del genitore, visto che il figlio acquista la capacità di agire, mentre per il resto la responsabilità genitoriale perdura. Non estinguendosi automaticamente la responsabilità genitoriale al compimento della
maggiore età, non si estinguono neppure i doveri ad essa connessi; pertanto, residua in capo al genitore l’obbligo di provvedere al mantenimento del figlio sino a che egli non abbia raggiunto
l’indipendenza. Al figlio, dal canto suo, si richiede un dovere di diligente impegno nel perseguimento della propria autonomia economica e nella realizzazione di un proprio progetto di
vita. Ne deriva quindi che il diritto al mantenimento, di regola, viene meno o quando il figlio ha
trovato un’occupazione adeguatamente retribuita, non occasionale o quando ha terminato già da
un certo lasso di tempo gli studi, visto che il conseguimento del titolo di studio finale implica un
onere per il figlio di attivarsi con profitto per trovare un’occupazione (eventualmente anche non
pienamente corrispondente alle proprie aspirazioni).

Questa impostazione è ora stravolta dalla pronuncia in commento.

La Suprema Corte cambia rotta e dice che, mentre nei confronti del figlio minore vi è a carico dei genitori un obbligo di mantenimento legale, posto direttamente ed automaticamente dal legislatore che si ricava dall’art. 315-bis co. 1^ c.c., per l’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne v’è invece una norma ad hoc: l’art. 337-septies c.c. che non prevede alcun automatismo circa l’attribuzione dell’assegno di mantenimento ma rimette la decisione al giudice, alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto.
Quello del figlio maggiorenne sarebbe, dunque, un diritto al mantenimento ulteriore che sorge solo su richiesta dello stesso e purché egli fornisca adeguata prova “(...) non solo [del]la mancanza di indipendenza economica – che è la precondizione del diritto preteso – ma di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro.”.
In mancanza, con il conseguimento della maggiore età si verificherebbe l’effetto estintivo del diritto al mantenimento legale perché si presume raggiunta la “(...) cd. capacità lavorativa, intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato. Essa si acquista con la maggiore età, quando la legge presuppone raggiunta l’autonomia ed attribuisce piena capacità
lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode della capacità di agire (e di
voto) (...)”.

È, infine, al § 4.5.4. che la S.C. indica alcune delle circostanze che, se provate, giustificano “(...) il
sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente, (...), fra le
altre: a) la condizione di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali, pur non
sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci; b) la prosecuzione di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma l’esistenza di un iter volto alla realizzazione delle
proprie aspirazioni ed attitudini, che sia ancora legittimamente in corso di svolgimento, in quanto vi si dimostrino effettivo impegno ed adeguati risultati, mediante la tempestività e l’adeguatezza dei voti conseguiti negli esami del corso intrapreso; c) l’essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi, svolti dal figlio nell'ambito del ciclo di studi che il soggetto abbia reputato a sé idoneo, lasso in cui questi si sia razionalmente ed attivamente adoperato nella ricerca di un lavoro; d) la mancanza di un qualsiasi lavoro, pur dopo l’effettuazione di tutti i possibili tentativi di ricerca dello stesso, sia o no confacente alla propria specifica preparazione professionale.”.

Avv. Giulia Simona Meucci

La riforma dell'abuso d'ufficio (art. 323 c.p.)

La riforma dell'abuso d'ufficio (art. 323 c.p.)

 Con il d.l. n. 76/2020 («decreto legge recante misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale» ) pubblicato in gazzetta il 16 luglio 2020, il Governo interviene nuovamente sul reato di abuso d'ufficio, fattispecie che, dalla sua formulazione originaria nel Codice Rocco del 1930, ha già visto tre importanti modifiche (1990, 1997 e 2020).

Vediamo la formulazione pre-riforma 2020:

 Art. 323 c.p.: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé od altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

 Vigente tale formulazione, la Giurisprudenza dominante prevedeva che “l’abuso richiesto per l’integrazione della fattispecie criminosa in esame deve intendersi come esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione; sicchè, mancando l’elemento dell’esercizio del potere è da escludere la configurabilità del reato” (nella fattispecie, la Suprema Corte ha escluso l’abuso d’ufficio per il parlamentare che ponga in essere condotte di c.d. “raccomandazione”, poiché quando non integrano l’uso dei poteri funzionali connessi alla qualità soggettiva dell’agente, tali condotte non rientrano nella nozione di atto d’ufficio (cfr. Cassazione n. 5118/1998; n. 7600/2006; n.5895/2013).

 Una formulazione particolarmente vaga che, nonostante il richiamato orientamento giurisprudenziale, ha fatto sì che nella prassi giudiziaria si è assistito spesso alla richiesta di rinvio a giudizio da parte delle procure per il reato in questione sulla base del mero e spesso discutibile accertamento del semplice errore amministrativo, senza tuttavia svolgere indagine sull’elemento psicologico del reato; la maggior parte dei procedimenti penali si concludeva infatti con l’assoluzione dell’imputato. Ad esempio, nel 2016 sono stati aperti 6.970 procedimenti con 46 condanne, mentre nel 2017 sono stati aperti 6.582 fascicoli e disposte 57 condanne.

 La riforma del 2020 intende infatti riservare la sanzione penale soltanto ai fatti realmente offensivi e risponde alle sempre più avvertite esigenze di certezza e precisione delle scelte di politica criminale in un terreno, quale è quello politico-amministrativo, dove spesso la mera esistenza di un procedimento penale produce per l'imputato effetti devastanti a prescindere dalla sua effettiva colpevolezza.

 Art. 323 c.p. post riforma 2020: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità.

Come si nota, appare chiarissimo l'intento del Legislatore di ridurre drasticamente l’area della rilevanza penale: intento sottolineato dalla presenza nella nuova formulazione dei margini di discrezionalità della condotta e del ristretto perimetro normativo costituito dalla violazione di condotte espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge.

Ne consegue che adesso l'area del penalmente rilevante non viene più ricondotta alle violazioni delle "norme di legge o di regolamento" ma viene circoscritta all'inosservanza "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge". Si esclude, dunque, che il reato in questione sia configurabile in caso di trasgressione di norme di rango secondario, regolamentare o subprimario, oppure anche in ipotesi di norme di rango primario, tutte le volte che da queste ultime non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse per il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio. Nella gerarchia delle fonti, invero, i regolamenti sono fonti di rango secondario e, come tali, sono ovviamente subordinati alla Costituzione, nonché a tutti gli atti aventi forza di legge. In aggiunta, si richiede in ogni caso, sempre ai fini dell'integrazione del delitto de quo, che dalla norma violata non debbano residuare "margini di discrezionalità" in capo al soggetto agente.

Per quanto importante, questa “ristrutturazione” non può da sola soddisfare le esigenze di  legalità e tassatività espresse da questo delicato settore della repressione penale, poiché esse sono inevitabilmente collegate al sostrato delle disposizioni amministrative che attribuiscono poteri o impongono doveri funzionali; è pur vero che negli ultimi anni si è assistito al fenomeno cd. della “paura della firma” del funzionario pubblico che, nel timore di incorrere in sanzioni o procedimenti penali, ometteva di svolgere la propria attività, ma con l'ultimo intervento si potrebbe tuttavia correre il rischio opposto di una eccessiva depenalizzazione.

Danni da vaccinazioni: cosa prevede la legge?

Danni da vaccinazioni: cosa prevede la legge?

  • Premessa

In un momento di vaccinazione di massa come quello attuale, può apparire di un certo interesse approfondire la tematica relativa alla risarcibilità degli eventuali effetti dannosi subiti a causa della somministrazione del siero anti Covid-19.

Molti, in particolare, ritengono che non vi sia spazio per risarcimento di alcun tipo, fondando tale assunto sulla non obbligatorietà del vaccino stesso, almeno per i soggetti under 50; chi si sottopone volontariamente a questo tipo di trattamento sanitario -firmando dunque il modulo di consenso informato- eliderebbe la responsabilità civile dello Stato per gli eventuali danni riportati. Ma vi sono dei riferimenti normativi o giurisprudenziali a sostegno di questa tesi?

  • Legge e giurisprudenza

Effettivamente, esaminando l'art. 1 della legge n. 210 del 1992, ci si trova in presenza di un dato letterale inequivoco, che sembra confermare in pieno la tesi della non-risarcibilità: “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge.”  

Tale dettato normativo, pertanto, non consente indennizzo se non in presenza di menomazioni permanenti derivanti da vaccinazioni obbligatorie, così che gli eventuali danni riportati a causa dell'attuale vaccino contro il Covid-19, stante la non obbligatorietà dello stesso, non potrebbero essere risarciti dallo Stato.

Il dato letterale appariva chiaro, fintanto che la Corte Costituzionale, nel 2017, è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di tale norma.

La questione di legittimità costituzionale della legge n. 210 del 1992 è stata infatti sollevata dalla Corte d'appello di Milano, nell'ambito di un giudizio promosso da un soggetto che aveva richiesto un indennizzo al Ministero della Salute a fronte della diagnosi della sindrome di Parsonage Turner, insorta a seguito di vaccinazione antinfluenzale «fortemente incentivata ai pensionati della sua fascia di età nelle campagne di sensibilizzazione del Ministero della Salute».

L'indennizzo era stato  originariamente negato sia dal centro medico, sia dal Ministero, poiché la vaccinazione in oggetto non era obbligatoria, ma solo raccomandata; ciò conformemente a quanto disposto dal già richiamato art. 1 della legge n. 210 del 1992.

La Consulta, pronunciandosi sul caso in oggetto con sentenza n. 268 del 2017, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 1, l. 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui non prevede il diritto all'indennizzo nei confronti di coloro che si siano sottoposti a vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata.

In particolare -spiega la Corte- la mancata previsione del diritto all'indennizzo si risolve in una lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost. Le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo richiedono che sia la collettività ad accollarsi l'onere di un danno individuale, mentre sarebbe ingiusto consentire che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo di un beneficio anche collettivo: la più ampia sottoposizione a vaccinazione quale profilassi preventiva può infatti notevolmente alleviare il carico, non solo economico, che le epidemie solitamente determinano sul sistema sanitario nazionale e sulle attività lavorative. Il fatto poi che la raccomandazione sia accompagnata, per alcune categorie di soggetti, dalla gratuità della somministrazione, non potrebbe fondare alcuna limitazione del novero dei destinatari dell'indennizzo.

Conclude allora il Giudice delle leggi stabilendo che “la ragione che fonda il diritto all'indennizzo del singolo non risiede allora nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio: riposa, piuttosto, sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell'interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale”.

Tale principio viene ribadito anche dalla Corte di Cassazione civile, con la recente sentenza n. 7354 del 2021, che ha infatti definitivamente riconosciuto il beneficio economico a favore di un soggetto che aveva contratto il “lupus eritematoso sistemico” a seguito della vaccinazione “anti epatite A”. “Una volta accertato il nesso di causalità, l'indennizzo in caso di danni dopo l'inoculazione del vaccino contro il contagio da virus dell'epatite A è sempre prevista, a prescindere dal fatto che esso sia soltanto raccomandato e non obbligatorio”.

Alla luce delle inequivocabili pronunce appena richiamate, può allora riconoscersi un indennizzo economico in favore di chi subisca pregiudizi da un vaccino non necessariamente obbligatorio per legge, ma fortemente raccomandato dall'autorità sanitaria, come è certamente quello attuale.

  • Le criticità

Tuttavia, per far sì che venga riconosciuto il diritto all'indennizzo, occorre fornire la prova che il danno asserito derivi dall'inoculazione del vaccino: la sussistenza del nesso causale tra somministrazione vaccinale ed il verificarsi del danno alla salute deve essere valutata secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica. Ad esempio, con sentenza n. 22078 del 2018, la Corte di Cassazione ha accolto la domanda presentata da una donna, in qualità di tutore del figlio, colpito da tetraparesi spastica, insufficienza mentale ed epilessia, atteso che è stata ritenuta corretta la valutazione compiuta in appello, laddove si era affermato che la patologia poteva essere ragionevolmente collegato alla vaccinazione antipolio). In altri casi, invece (cfr. Corte appello Milano sez. lav., 18/02/2020, n.152) non spetta l'indennizzo previsto dall'art. 2, comma 1 della L. 210/92 per mancanza del nesso di causalità tra la somministrazione di vaccino esavalente e del primo ciclo del vaccino trivalente e l'autismo o qualsiasi altro disturbo del comportamento poiché non sussiste la ragionevole probabilità scientifica che il quadro patologico possa essere ricondotto alle vaccinazioni.

Quali sanzioni sono previste per chi viola la quarantena?

Quali sanzioni sono previste per chi viola la quarantena?

  • Definizioni

Che cos'è la quarantena?

È opportuno premettere che spesso il termine “quarantena” viene utilizzato indistintamente in riferimento ai giorni da dover trascorrere in casa, ma esistono due diversi tipi di quello che, in linguaggio più tecnico, è definito isolamento domiciliare: l’isolamento domiciliare obbligatorio e l’isolamento domiciliare fiduciario. Il primo è quel tipo di isolamento a cui dovrà attenersi il soggetto che, con certezza, ha contratto il Covid: dunque i soli casi confermati all'esito di un tampone antigienico o molecolare risultato positivo. L'isolamento domiciliare fiduciario, invece, è quel tipo di isolamento cui si sottopongono casi cosiddetti “sospetti”, ad esempio parenti conviventi o contatti stretti di persone che hanno contratto il Covid.

  • Le sanzioni più lievi

Com'è noto, coloro che risultano tra i contatti stretti di un positivo e non sono vaccinati con dose booster (o con vaccinazione di due dosi da meno di 4 mesi) dovranno porsi in isolamento fiduciario. Le sanzioni amministrative per chi abbandona questo isolamento restano tuttora quelle previste dal decreto 19 e dal decreto 33 del 2020 (entrambi convertiti in legge), che saranno applicate all'esito di una valutazione discrezionale da parte dell'agente accertatore -che dovrà necessariamente parametrarsi alla gravità della violazione- ed al momento attuale oscillano tra i 400 ed i 1000 euro.

Come avviene, nel concreto, la quantificazione precisa della sanzione? Occorre premettere che la sanzione base parte necessariamente dal minimo, dunque 400 € (che si riducono a 280 € se il saldo avviene entro 5 giorni dalla contestazione), per poi aumentare in presenza di particolari -e motivate- situazioni di maggiore gravità o procurato pericolo. Ad esempio, al soggetto che viene sorpreso a passeggiare intorno a casa sarà verosimilmente irrogata la sanzione minima; diversamente, colui che viene sorpreso molto lontano dalla propria abitazione, o comunque in zone particolarmente affollate, procurando così un maggior pericolo di contagio, potrà vedersi aumentare la sanzione anche fino al massimo.

Val la pena ricordare che le medesime sanzioni si applicano anche a chi, non essendo provvisto di un valido green pass, accede comunque a determinati locali o attività per i quali è richiesta tale certificazione. Le sanzioni colpiscono sia il singolo cittadino che l'esercente od il gestore. Nello specifico, chi possiede un locale e viola il disposto normativo per almeno tre volte in tre giorni diversi, potrebbe andare incontro alla chiusura, da 1 a 10 giorni, dell’attività imprenditoriale.

  • Le sanzioni più gravi

Le sanzioni più gravi, quelle cioè di natura penale, si applicano in caso di violazione delle misure di contenimento da parte del soggetto positivo al virus, in considerazione, evidentemente, della particolare pericolosità per l’incolumità pubblica di condotte di questo tipo.

In particolare, l'art. 1 co. 6 del d.l. 16 maggio 2020, n. 33, conv. l. 14 luglio 2020, n. 74, sancisce il “divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell'autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all'accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata”.

Le pene, salvo che il fatto costituisca più grave reato, sono quelle richiamate dall'articolo 260 del testo unico della legge sanitaria 265 del 1934, il quale prevede che “chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo è punito con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000”.

Pertanto, chiunque, positivo al virus, viola il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora, verrà sanzionato con la pena congiunta, e quindi non più oblabile, di arresto ed ammenda e, in particolare, l’arresto da 3 a 18 mesi e l’ammenda da 500 a 5.000 euro.

Anche in questo caso, per determinare con esattezza l'entità della pena, dovranno essere valutati -e adeguatamente motivati- specifici profili di maggiore o minore gravità della violazione.

È tuttavia il caso di ricordare che restano applicabili gli istituti della sospensione condizionale della pena e le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, qualora ne ricorrano i presupposti di legge.

  • Le sanzioni gravissime

Vi sono poi alcune fattispecie che vengono punite molto severamente dalla legge, anche se non sono di frequente applicazione. Sono i casi in cui un soggetto, per propria colpa, contagia altre persone: è il reato di epidemia colposa (disciplinato dall'art. 452 Cod. Pen.) che prevede pene che vanno da 6 mesi a 3 anni di reclusione.

Tuttavia, se da un lato è molto semplice stabilire la sussistenza di una condotta colposa (ciò si rinviene nella semplice violazione della quarantena, che può essere commessa indistintamente dal soggetto positivo oppure soltanto “contatto stretto”) è molto più difficile dimostrare che il contagio è avvenuto proprio in occasione di tale comportamento. Infatti, data l'estrema volatilità e contagiosità del virus, appare particolarmente complesso, da parte degli organi inquirenti, riuscire a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i contagi subiti da terzi siano stati causati proprio dal comportamento colposo del soggetto che ha violato il provvedimento di permanenza domiciliare.

Per chi invece sa di essere positivo al Covid e si avvicina a un soggetto trasmettendogli il virus, potrà essere contestato il reato di lesioni a titolo di dolo eventuale e, se ne deriva la morte, anche il reato di omicidio, poiché viene accettato implicitamente il rischio di poter infettare la vittima. In alternativa, ed è una circostanza più verosimile, sarà contestata la colpa cosciente se il soggetto agisce nella convinzione che il contagio non si verificherà, ma questo si verifica comunque; in quest'ultimo caso egli risponderà dunque dell'eventuale reato di lesioni o di omicidio nella forma colposa. Come già richiamato, tuttavia, sarà difficile accertare in concreto il nesso di causalità, vista la modalità di condotta e l'incertezza nella trasmissione del virus che può transitare da contatti diversi.

La responsabilità del Comune per i danni da insidia stradale: la distrazione del danneggiato non impedisce il risarcimento.

La responsabilità del Comune per i danni da insidia stradale: la distrazione del danneggiato non impedisce il risarcimento.

Il caso preso in esame dalla Suprema Corte concerne l'infortunio subito da una donna che, nel percorrere il vialetto di un cimitero comunale, cade in conseguenza di un avvallamento, riportando diverse fratture.

Agendo dunque per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenze della caduta, la signora cita in giudizio l'amministrazione comunale (preposta alla custodia della strada), dalla quale però si sente rispondere che l'anomalia del fondo stradale era facilmente percebile – tenuto conto della circostanza che aveva una dimensione di due metri di lunghezza e venti centrimetri di profondità – e che l'evento si è verificato esclusivamente a causa della condota negligente, distratta, imperita, imprudente della vittima, così che nessuna colpa può attribuirsi al comune. La tesi della condotta colposa della vittima viene accolta nei primi due gradi di giudizio, così che la signora, per ottenere un congruo risarcimento, propone ricorso per Cassazione.

Sono infatti del tutto consuete le difese di stile, proposte dalle pubbliche amministrazioni o dalle assicurazioni convenute, che resistono alle domande risarcitorie di chi subisce un danno alla propria auto a causa di una buca nel manto stradale o di chi, per una sconnessione del marciapiede, inciampa e si ferisce. Spesso, la strategia difensiva consiste nell'attribuire la colpa nella verificazione del sinistro al danneggiato stesso, assumendo che quest'ultimo non abbia prestato la dovuta diligenza ed attenzione mentre percorreva la strada.

Nell'ipotesi di danno da insidia stradale, la valutazione del comportamento del danneggiato è in effetti di imprescindibile rilevanza, potendo tale comportamento, se ritenuto colposo, escludere del tutto la responsabilità dell'ente pubblico preposto alla custodia e manutenzione della strada, o quantomeno fondare un concorso di colpa del danneggiato stesso valutabile ex art. 1227, primo comma, Cod. Civ.

E dunque, se in generale si può riconoscere – con i dovuti limiti – una qualche rilevanza al cosiddetto principio di autoresponsabilità, in forza del quale chiunque cammini per strada deve prestare la dovuta attenzione e cautela, altrettanta rilevanza va però riconosciuta anche al principio di affidamento che l'utente della strada ripone sulla sicurezza della stessa.

D'altra parte – e qui sembra essere il punto – il contesto o lo stato dei luoghi non può far presumere il comportamento colposo del danneggiato, là dove tale contesto (per le sue caratteristiche) avrebbe dovuto indurre maggiori cautele ed attenzioni da parte dell'utente bensì, in maniera esattamente contraria, è proprio il contesto a far presumere la sussistenza del nesso di causa tra la cosa in custodia ed il danno subito.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della signora proprio sotto questo punto di vista, precisando che la condotta distratta o imprudente del danneggiato non basta di per sé ad escludere la risarcibilità del danno; quando viene eccepita la colpa della vittima, questa esige infatti un duplice accertamento: a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; b) che tale condotta non sia prevedibile e prevenibile. La condotta può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire la qualità di detta condotta è un giudizio di fatto, e come tale riservato al giudice di merito, ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima.

La Corte statuisce infatti che, nel caso della signora infortunata, non può evidentemente sostenersi che la caduta sia imprevedibile (rientrando nel notorio che la buca possa determinare la caduta del passante) e imprevenibile (sussistendo, di norma, la possibilità di rimuovere la buca o, almeno, di segnalarla adeguatamente). 

Deve allora ritenersi che il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non sia idoneo ad interrompere il nesso causale, che è manifestamente insisto nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla prevedibile e prevenibile interazione fra la condizione pericolosa della cosa e la condotta del passante.

In conclusione, si può allora affermare che, nel caso di caduta di pedone in una buca stradale, non risulta escluso ogni risarcimento a fronte del mero accertamento di una condotta colposa da parte della vittima; tale condotta, per interrompere il nesso causale, dovrà anche presentare caratteri di imprevedilità ed eccezionalità che - a onere del custode - devono necessariamente essere dimostrati.

Seguendo queste argomentazioni, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso della signora, cassa la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'Appello competente, che dovrà decidere attendendosi ai principi di diritto enunciati dalla Corte.

Dichiarare il falso in autocertificazione non costituisce reato se il DPCM è illegittimo

Dichiarare il falso in autocertificazione non costituisce reato se il DPCM è illegittimo

La questione giuridicaProcedendo dunque ad esercitare l'azione penale contro i due soggetti, il Pubblico Ministero, terminate le indagini, ha richiesto l'emissione di un decreto penale di condanna.

Il GIP del Tribunale di Reggio-Emilia, di diverso avviso, ha però ritenuto che tale richiesta non potesse trovare accoglimento e, con sentenza n. 54 del 2021, ha concluso che la compilazione di una autocertificazione falsa non costituisce un comportamento penalmente rilevante, per effetto della «indiscutibile illegittimità del DPCM 08.03.2020, come pure di tutti quelli successivamente emanati dal Capo del Governo».

Come si intuisce, le argomentazioni con le quali il Giudice emiliano sostiene tale assunto afferiscono alla illegittimità costituzionale del DPCM indicato che, configurando un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, si pone in contrasto con l'art. 13 della Costituzione. Tale articolo, infatti, afferma l'inviolabilità della libertà personale, stabilendo che questa può essere compressa esclusivamente a seguito di un atto motivato dall'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti tassativamente dalla legge (vi è in sostanza una doppia riserva, di legge e di giurisdizione). Nel nostro ordinamento, infatti, l'obbligo di permanenza domiciliare consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all'esito di un giudizio. Logico corollario di tale principio è che un DPCM, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge, non può disporre alcuna limitazione alla libertà personale, in osservanza del dettato costituzionale di cui al richiamato art. 13 Cost.

Il GIP precisa inoltre, in modo particolarmente incisivo, che non può confondersi la libertà di circolazione con la libertà personale. I limiti -legittimi- alla libertà di circolazione attengono a luoghi specifici il cui accesso può essere precluso poiché ritenuti pericolosi/infetti; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, bensì le persone, allora i divieti si configurano come vere e proprie limitazioni della libertà personale. Quando il divieto di spostamento è assoluto, cioè quando si prevede che il cittadino non possa recarsi in alcun luogo al di fuori della propria abitazione, è indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale.

Conclusioni

All'esito di tali argomentazioni, il Giudice emiliano ritiene dunque illegittimo il DPCM indicato per violazione dell'art 13 Cost.; peraltro, essendo il DPCM un atto amministrativo, il Giudice ordinario non deve neppure rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale per un esame sul punto, ma deve procedere direttamente alla disapplicazione dell'atto.

L'iter logico-giuridico seguito dal GIP conduce dunque a sostenere che la condotta di falso, pur materialmente comprovata in atti, non sia tuttavia punibile poiché questa, previa disapplicazione della norma che imponeva illegittimamente l'autocertificazione, va ad integrare il cosiddetto “falso inutile” o “falso innocuo”, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere.

Per tutti questi motivi, il Giudice pronuncia quindi sentenza di proscioglimento nei confronti dei due imputati, perché il fatto non costituisce reato. Tale sentenza è poi divenuta definitiva ed irrevocabile, essendo trascorsi 15 giorni dall'emissione della stessa senza che il P.M. abbia presentato opposizione in appello.

qui il link alla sentenza completa: https://www.ambientediritto.it/giurisprudenza/tribunale-di-reggio-emilia-27-01-2021-sentenza-n-54/
Patrimonializzazione del dato personale e risarcimento del danno.

Patrimonializzazione del dato personale e risarcimento del danno.

La patrimonializzazione del dato personale

Il diritto alla riservatezza, come comunemente si afferma in dottrina ed in giurisprudenza, è strettamente collegato alle profonde trasformazioni operate dalla società industriale e post industriale ma è soprattutto con l'incessante progresso tecnologico, con il perfezionarsi dei mezzi di comunicazione di massa e degli strumenti di raccolta di dati e notizie che si è resa necessaria l'individuazione di più efficaci ed adeguate difese.

Il fenomeno della “patrimonializzazione” del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali, impone agli operatori di rispettare, nelle relative transazioni commerciali, quegli obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a protezione del consumatore. Il dato personale è infatti espressione di un diritto della personalità dell’individuo, e come tale è soggetto a specifiche e non rinunciabili forme di protezione, quali -a titolo esemplificativo- il diritto di revoca del consenso, di accesso, rettifica, oblio.

La collaborazione tra Guardia di Finanza e Garante per la protezione dei dati personali

Alla luce delle nuove attribuzioni affidate all'Autorità per la protezione dei dati personali dalla legge italiana ed europea, si è reso necessario rinnovare il protocollo d'intesa fra Guardia di Finanza e Garante per la protezione dei dati personali. Il livello di collaborazione fra i due enti è sempre stato eccellente, ed ha consentito al Garante Privacy di avvalersi di un sistema di controllo efficace ed articolato, necessario per garantire il rispetto della protezione dei dati personali su tutto il territorio nazionale. L'art. 58 del regolamento prevede infatti dei penetranti poteri di indagine, che attribuiscono la facoltà:

- di ingiungere al titolare del trattamento e al responsabile del trattamento di fornire ogni informazione di cui necessiti per l'esecuzione dei suoi compiti;

- di condurre indagini sotto forma di attività di revisione sulla protezione dei dati;

- di notificare al titolare del trattamento o al responsabile del trattamento le presunte violazioni del Regolamento (UE) 2016/679;

- di ottenere, dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento, l'accesso a tutti i dati personali e a tutte le informazioni necessarie per l'esecuzione dei suoi compiti;

- di ottenere accesso a tutti i locali del titolare del trattamento e del responsabile del trattamento, compresi tutti gli strumenti e mezzi di trattamento dei dati, in conformità con il diritto dell'Unione o il diritto processuale degli Stati membri.

In generale, all'interno della collaborazione tra i due enti, il protocollo sviluppa particolarmente l'ambito ispettivo, promuovendo verifiche volte a rilevare, dall'esame di siti web ed altri strumenti telematici, eventuali carenze nella protezione dei dati personali da parte di titolari -pubblici e privati- che entrano a contatto con questo tipo di dati per mezzo di reti telematiche. 

  Può essere allora utile approfondire, in caso di violazione del codice della privacy, quali sono le condizioni che legittimano la risarcibilità del danno.
  Il danno va allegato e provato, non è sufficiente la mera violazione se da questa non deriva un danno apprezzabile.

Da un'analisi di alcune fra le più significative sentenze sul tema (cfr. Cass. Civ. n. 10638 del 2016 e Trib. Siena n. 1244 del 2018) si osserva che in caso di illecito trattamento di dati personali, il diritto al risarcimento del danno postula che a tale condotta sia conseguito uno stato di sofferenza dotato di adeguate caratteristiche di serietà della offesa e gravità del danno. Colui che chiede il ristoro del danno, in particolare, non può limitarsi a provare l'esistenza di una condotta altrui contraria a norme giuridiche, non essendo ciò sufficiente a provare anche l'ulteriore elemento della conseguenza lesiva per la riservatezza.

Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (cosiddetto “Codice della Privacy”), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della 'gravità della lesione' e della 'serietà del danno' (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva.

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale per violazione dell'art. 15, d.lgs. n. 196/2003, è però ammissibile la prova per testimoni di tale danno, in quanto esso non può ritenersi 'in re ipsa', ma va allegato e provato, sia pure attraverso il ricorso a presunzioni semplici, e, quindi, a maggior ragione, tramite testimonianze, che attestino uno stato di sofferenza fisica o psichica.

Il fenomeno della "Malamovida" e la responsabilità del Comune.

Il fenomeno della "Malamovida" e la responsabilità del Comune.

Tutti i ricorrenti abitano a Torino; negli ultimi 15 anni il loro quartiere è diventato, progressivamente, la principale zona della movida torinese. Sono stati aperti sempre nuovi ristoranti, wine e cocktail bar, enoteche, rivendite di street food, minimarket con bevande da asporto, ai quali si sono aggiunti numerosi venditori ambulanti. Il quartiere, deserto di giorno, si anima a partire dal tardo pomeriggio; vie e piazze sono affollatissime, congestionate ed impercorribili. I marciapiedi, le soglie dei portoni e le auto parcheggiate sono imbrattate da escrementi, vomito, bottiglie rotte e ogni tipo di rifiuti. I protagonisti della movida urlano, sporcano, fanno esplodere fuochi d'artificio, insultando i passanti, colpiscono le auto, suonano i campanelli dei palazzi a tutte le ore. I residenti non riescono a dormire e soffrono di stanchezza cronica; non possono leggere, conversare, guardare la TV, ricevere ospiti (a causa delle difficoltà di accesso alla zona), vivono con le finestre chiuse d'estate. Non possono neppure contare, in caso di emergenza, sull'accesso delle ambulanze e dei mezzi dei Vigili del Fuoco, che non potrebbero farsi largo nel blocco compatto dell'immensa folla.

Il piano di classificazione acustica della città assegna ad alcuni isolati del quartiere la classe III (limite assoluto di immissione rumorosa pari a 50 dB) e a pochi altri la classe IV (limite 55 dB). Dal 2013 in poi, l'ARPA e la Polizia Municipale hanno individuato numerosi locali dove i limiti di immissione sonora venivano ampiamente superati, con punte da 65 a 75 dB. In particolare, un'indagine tecnica eseguita su incarico di uno dei ricorrenti ha misurato, con riferimento alla situazione attuale, la rumorosità ambientale in termini assoluti evidenziando, per ciascuna delle abitazioni, il persistente superamento del valore di attenzione notturno per la classe V, quella propria delle zone a prevalenza industriale. Tutte le relazioni vennero inviate al Comune, peraltro già al corrente della situazione per via degli esposti dei residenti.

Le difese del Comune

In sintesi, le difese del Comune vertono sulla non riconducibilità degli schiamazzi alla negligenza dell'Ente stesso, che ha adottato tutte le misure possibili per tenere la situazione sotto controllo. Il quartiere è stato oggetto di rigidi controlli, molti locali sono stati sanzionati, altri chiusi o il loro orario di esercizio è stato ridotto. La Polizia Municipale ha costantemente pattugliato il quartiere per garantire il transito delle auto, contestare infrazioni agli avventori, controllare i locali pubblici e sgomberare stalli di sosta destinati ai residenti. Il servizio di pulizia cittadino è stato inoltre anticipato alle 3 del mattino, allo scopo di allontanare chi fosse ancora presente in strada.

Il Comune ha sempre agito ispirandosi alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione che presiedono all'esercizio delle sue funzioni: il fenomeno della “malamovida” è stato contenuto nel rispetto dell'ordinamento e dei valori coinvolti.

In particolare, il Comune ci tiene a sottolineare che la situazione pregiudizievole della quale i residenti si dolgono è addebitabile esclusivamente al comportamento illecito di terzi, che sono i soli a doverne rispondere: il Comune ha attuato, nei limiti delle proprie attribuzioni e del contemperamento tra i diversi interessi in gioco, tutte le misure necessarie per arginare il fenomeno, ed altro non può fare.

L'inquadramento della questione giuridica e la decisione del Tribunale

Il tema della genesi dei rumori e di tutte le altre molestie patite dai residenti investe la questione dell'applicabilità, al caso concreto, dell'art. 844 Cod. Civ (“Immissioni”)

Sul punto, le considerazioni svolte dal Comune sono condivisibili; infatti, ciò che accade nelle strade e nelle piazza del quartiere non dipende da eventi organizzati o autorizzati dal Comune stesso, ma dalla libera aggregazione di un numero eccessivo e incontrollato di persone, attirate dalla presenza dei numerosissimi esercizi commerciali. L'indagine da compiere attiene dunque ad un profilo diverso: si deve stabilire se davvero il Comune abbia posto in essere tutto quanto era in suo potere per ricondurre le immissioni rumorose entri i limiti previsti per ciascuna zona secondo la propria classificazione acustica e, in generale, per evitare e contenere gli altri effetti nocivi della movida.

Il nesso causale tra i danni patiti dai residenti e le omissioni del Comune deve dunque essere ricercato secondo la norma dell'art. 2043 Cod. Civ. (“Risarcimento per fatto illecito”) e la legge n. 447 del 1995 (“Legge quadro sull'inquinamento acustico”) che individua, all'art. 6, le specifiche competenze dei Comuni. D'altra parte, la difesa del Comune non consiste affatto nel negare tali attribuzioni, ma nel sostenere che, proprio nel rispetto delle norme vigenti, è stato fatto tutto quanto era dovuto. Tuttavia, come ha scritto il consulente tecnico, i provvedimenti emanati hanno avuto un successo al più limitato e provvisorio e, comunque, si sono palesati del tutto insufficienti per ricondurre la rumorosità del quartiere entro i limiti di legge. Senza dubbio, delle violazioni penali, quali schiamazzi, imbrattamento delle cose pubbliche e private, danneggiamenti, ingiurie) risponde chi le pone in atto, ma è palese che all'origine della concentrazione, nella zona, di un tale numero di trasgressori, vi è l'altrettanto grande concentrazione di ristoranti, bar, vinerie, birrerie, minimarket, rivenditori ambulanti. Il Tribunale ritiene allora che i provedimenti del Comune a carico di questo variegato universo commerciale sono stati del tutto insufficienti. Se c'è gente ovunque significa che nessuno degli esercenti ha rispettato l'obbligo di controllarne l'afflusso nelle proprie adiacenze: dunque, assai più locali avrebbero dovuto essere sanzionati o chiusi. Se un numero imprecisato di dehors ha invaso il suolo pubblico e vi si svolgono attività, non consentite, di somministrazione di alimenti e bevande, il Comune avrebbe dovuto revocare i relativi atti autorizzativi, sino a liberare le strade e a concentrare le consumazioni all'interno dei locali. Una criticità così elevata avrebbe richiesto un efficace piano di risanamento acustico che, a quanto risulta, non è stato neppure intrapreso. Per queste ed altre valutazioni, il Tribunale ritiene che, in conclusione, non si possa negare che sussista il nesso causale, nei termini illustrati, tra ciò che accade nel quartiere e le scelte del Comune. Alla responsabilità del Comune, consegue dunque il risarcimento dei danni lamentati dai residenti che il Tribunale quantifica in 6.000 euro all'anno dal momento dell'inizio delle immissioni intollerabili, e dunque un totale di 42.000 euro per ciascun residente.

Sinistri stradali e presunzione di pari responsabilità

Sinistri stradali e presunzione di pari responsabilità

Il caso

Sulla scorta del rapporto redatto dai Carabinieri di Baiano, dello schizzo pianimetrico ad esso allegato e delle deposizioni testimoniali, la sentenza di primo grado ha accertato che l'incidente si è verificato in prossimità dell'intersezione di via del Cardinale, allorquando il sig. [omissis], alla guida della propria autovettura, senza accertarsi se da destra o da sinistra provenisse qualche veicolo, ha invaso parte della carreggiata di via del Cardinale, anche a causa della visibilità ridotta da un'autovettura in sosta, senza avvedersi del ciclomotore che proveniva dalla via adiacente, urtando contro il ciclomotore stesso e facendolo rovinare a terra. Alla luce di tali risultanze, il giudice di primo grado ha affermato la responsabilità del conducente dell'autovettura per aver violato la norma di cui all'art. 145 comma 5 C.d.S ("Precedenza"), sanzionata anche dai Carabinieri intervenuti sul posto.

La questione giuridica

Ad avviso del Tribunale, l'accertamento della responsabilità dell'automobilista non esonera la conducente del ciclomotore dall'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento, al fine di escludere la presunzione di colpa posta a suo carico ai sensi dell'art. 2054 comma 2 c.c., dimostrando, ad esempio, di aver tenuto una velocità adeguata all'orario, alle condizioni della strada, alla prossimità di un'intersezione, o di aver approntato una manovra di emergenza idonea ad evitare lo scontro. Essendo mancata tale prova, ed essendo inoltre emersa la violazione, da parte della conducente del ciclomotore, della norma di cui all'art. 170 C.d.S. per aver trasportato sul ciclomotore un passeggero in difetto della omologazione del mezzo, la sentenza di primo grado ha ritenuto che la stessa avesse concorso al verificarsi del sinistro perché la presenza del passeggero aveva alterato l'equilibrio del mezzo, riducendo la sua capacità di manovra e la sua stabilità. La conducente del ciclomotore decideva quindi di impugnare la sentenza di primo grado, ritenendo che il Tribunale avesse erroneamente affermato il concorso di colpa nella misura del 70/30%; in particolare adduceva che la presenza del passeggero sul ciclomotore non avesse in alcun modo contribuito al verificarsi del sinistro.

Il principio di diritto espresso

La decisione della Corte d'Appello appare netta: “il motivo così articolato è infondato... La decisione del Tribunale appare immune da censura”.

La presunzione di pari responsabilità prevista dall'art. 2054 comma 2 c.c. pone a carico di ciascuno dei conducenti l'onere della prova liberatoria, sicché ciascuno di essi deve non soltanto dimostrare la condotta dell'altro, violativa delle norme che disciplinano la circolazione stradale, ma deve anche fornire la prova positiva della propria condotta, che deve risultare conforme alle norme del codice della strada ed immune da colpa generica, e volta a porre in atto le manovre di emergenza esigibili nel caso concreto (tra le tante, cfr. Cass. 7057/2017; 6039/2017).

Nel caso di specie, la conducente del ciclomotore non ha dimostrato di aver tenuto una condotta di guida pienamente conforme al codice della strada ed alle comuni regole di prudenza, non emergendo dalle deposizioni testimoniali alcun riferimento, neppure generico, alla sua andatura, né alla velocità tenuta dal ciclomotore, e non avendo i testimoni riferito circostanze dalle quali inferire che la stessa, approssimandosi all'intersezione, abbia usato la "massima prudenza al fine di evitare incidenti" richiesta dall'art. 145 comma 1 C.d.S.; né si evince dalla prova orale che la conducente del ciclomotore abbia fatto ricorso alle manovre di fortuna che si presentino le più opportune ed efficaci ad evitare l'evento lesivo. Nemmeno può ritenersi, come prospetta l'appellante, che il trasporto del passeggero sul ciclomotore non abbia contribuito al verificarsi del sinistro, dovendo invece affermarsi che la maggiore instabilità del mezzo e la maggiore difficoltà di manovra, conseguenti all'appesantimento del veicolo, abbiano concorso alla causazione dell'incidente perché hanno rallentato i tempi di frenata ed ostacolato una manovra di emergenza. Pertanto, resta fermo il capo della sentenza impugnata con il quale il Tribunale ha quantificato la responsabilità del conducente dell'automobile accertata in concreto, in misura del 70%, e quella concorrente della conducente del ciclomotore in misura del 30%, avuto riguardo alla mancata acquisizione della prova liberatoria ed alla violazione dell'art. 170 C.d.S.

Sinistro stradale cagionato da fauna selvatica: chi è il responsabile?

Sinistro stradale cagionato da fauna selvatica: chi è il responsabile?

I danni causati dagli animali selvatici, in passato, erano considerati sostanzialmente non indennizzabili, in quanto tutta la fauna selvatica era ritenuta “res nullius”; soltanto di recente la giurisprudenza della Corte di Cassazione, con differenti pronunce (Cass. n. 8384/2020; Cass. n. 8385/2020; Cass. n. 12113/2020; Cass. n. 13848/2020), ha condivisibilmente individuato nella Regione l'unico soggetto passivamente legittimato.

La ricostruzione del regime di imputazione della responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici ha infatti comportato l'individuazione dell'ente pubblico -eventualmente- responsabile  nella Regione, quale ente titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la tutela della fauna e la gestione sociale del territorio; e ciò anche laddove la Regione abbia delegato i suoi compiti alle Province.

La fonte della responsabilità degli incidenti è «la colposa omessa adozione delle misure necessarie ad impedirli» ed è dunque la Regione che rimane responsabile perché, anche quando abbia delegato le sue funzioni alle Province, non perde la titolarità delle stesse. Non è pero da escludersi la possibilità che la responsabilità concorra tra diversi enti quando si accerti, nel caso concreto, che il sinistro sia da imputarsi ai comportamenti colposi di più amministrazioni, a diversi livelli istituzionali.

Per quanto attiene al regime di imputazione della responsabilità, in applicazione del criterio oggettivo di cui all'art. 2052 c.c., sarà naturalmente il danneggiato a dover allegare e dimostrare che il danno è stato causato dall'animale selvatico.

Ciò comporta, evidentemente, che sul conducente graverà l'onere di dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito, oltre che l'appartenenza dell'animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992, e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.

Non può però ritenersi sufficiente -ai fini dell'applicabilità del criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c.- la sola dimostrazione della presenza dell'animale sulla carreggiata e neanche che si sia verificato l'impatto tra l'animale ed il veicolo, poiché al danneggiato spetta di provare che la condotta dell'animale sia stata la "causa" del danno e poiché, ai sensi dell'art. 2054 c.c., comma 1, in caso di incidenti stradali il conducente del veicolo è comunque onerato della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno.

Quest'ultimo - per ottenere l'integrale risarcimento del danno che ritiene di aver subito - dovrà dunque allegare e dimostrare l'esatta dinamica del sinistro, dalla quale emerga che egli aveva nella specie adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida (cautela da valutare con particolare rigore in caso di circolazione in aree in cui fosse segnalata o comunque nota la possibile presenza di animali selvatici) e che la condotta dell'animale selvatico abbia avuto effettivamente ed in concreto un carattere di tale imprevedibilità ed irrazionalità per cui -nonostante ogni cautela- non sarebbe stato comunque possibile evitare l'impatto, in modo tale che esso possa effettivamente ritenersi causa esclusiva (o quanto meno concorrente) del danno.

In conclusione, vale precisare la ratio che può dirsi sottesa a tale sistema normativo. Ogni decisione relativa a oneri economici che gravino sulla collettività deve tenere conto di un duplice ordine di elementi. Da un lato, devono essere tutelate le ragioni dei privati, che si ritengano danneggiati da res di proprietà della Pubblica Amministrazione. Allo stesso tempo, occorre preservare il supremo interesse, a vedere riconosciuta la risarcibilità —gravante sulle casse pubbliche— delle sole ipotesi di danno dovuto all'effettiva, e concreta, imputabilità del sinistro all'ente pubblico.

Ogni evoluzione interpretativa circa il portato degli artt. 2043 ,2051, 2052 c.c. trova fondamento proprio in questa -o analoghe- considerazioni: da qui deriva la necessità di precisare i criteri di applicazione dei regimi veicolati da queste disposizioni, al fine di costringere le pretese private in percorsi ben definiti, e il più possibile guidati.

Alcol test e la facoltà di farsi assistere dall'avvocato.

Alcol test e la facoltà di farsi assistere dall'avvocato.

Una recentissima sentenza della II Sezione della Cassazione Civile (n. 27378 dell'8/10/2021) fornisce delle indicazioni in merito alla legittimità dell'accertamento dello stato di ebbrezza del conducente effettuato senza la presenza del proprio avvocato qualora quest'ultimo, pur dichiarando la sua immediata disponibilità, tardi a presentarsi.

In materia di guida in stato di ebbrezza, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'accertamento strumentale di tale stato (cosiddetto “alcooltest”) costituisce atto di polizia giudiziaria urgente ed indifferibile cui il difensore può assistere senza tuttavia aver diritto di essere previamente avvisato, dovendo la polizia giudiziaria unicamente avvertire la persona sottoposta all'indagine della facoltà di farsi assistere da difensore di fiducia.

Ai sensi dell'art. 114 disp. Att. del Codice di Procedura Penale, infatti, la persona sottoposta a test dell'etilometro deve essere preventivamente avvisata della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia a pena di nullità dell'accertamento stesso; ciò non comporta, tuttavia, che i verbalizzanti debbano attendere l'arrivo del difensore eventualmente nominato, per procedere alla effettuazione del test.

Il difensore, allora, deve essere prontamente reperibile e disponibile a presenziare: è del tutto evidente, infatti, che un'eccessiva protrazione dell'attesa possa incidere sull'attendibilità ed efficacia dell'accertamento e, quindi, sulla corrispondenza reale dell'esito della rilevazione del tasso alcolemico.

Ma è possibile ipotizzare, dunque, il tempo massimo di attesa, prima che si proceda comunque ad effettuare il test?

In difetto di esplicita previsione normativa, la richiamata sentenza fornisce un'indicazione di massima: “il difensore, poi intervenuto presso il suddetto Comando di polizia, ha presenziato all'esecuzione della seconda prova... in tal senso restando salvaguardato anche il concreto esercizio del diritto di assistenza difensiva, da valutarsi, comunque, in modo compatibile con i tempi ragionevoli in cui deve essere realizzato il progressivo accertamento, considerandosi, perciò, certamente ragionevole, nel caso di specie, il lasso temporale complessivo di 35 minuti per il compimento del doppio test”.

Viene dunque indicato come ragionevole un tempo di attesa non superiore a 35 minuti, anche se vale la pena dare atto, in questa sede, che detto termine consiste in un'indicazione di massima, certamente non sovrapponibile, in modo automatico, ad altri casi.

In ogni caso, si evidenzia come anche una dilazione di pochi minuti può comportare effetti del tutto favorevoli al conducente che versi in stato di ebbrezza, in quanto ai fini dell'accertamento della violazione di cui all'art. 186 C.d.S. (integrante un semplice illecito amministrativo, ove il tasso rilevato sia accertato tra il limite minimo di 0,5 m/l e di 0,8 m/l, e gli estremi di un reato nell'ipotesi di superamento di quest'ultimo valore) è sufficiente che il tasso alcolemico cali anche di 0,1 m/l per attestarsi nella soglia inferiore, e dunque evitare, potenzialmente, un procedimento penale con conseguente sospensione o revoca della patente di guida.

Palpeggiamento dei glutei: la differenza tra molestia e violenza sessuale

Palpeggiamento dei glutei: la differenza tra molestia e violenza sessuale

Molestia e violenza sessuale: la differenza

In primo luogo, può essere utile definire gli ambiti applicativi della molestia e della violenza sessuale.

Per quanto attiene alla molestia, il dispositivo dell'art. 660 Cod. Pen., rubricato “ Molestia o disturbo alle persone ”, prevede che “ chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516. ” 

Tale formulazione appare sufficientemente chiara; integra il reato in oggetto qualsiasi condotta connotata dall'effetto di i mportunare e di produrre disturbo nell'altrui sfera privata o nell'altrui vita di relazione. La molestia è costituita da tutto ciò che altera dolosamente, fastidiosamente e importunamente lo stato psichico di una persona, con azione durevole o momentanea.

Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 660 c.p., è quindi necessaria una effettiva e significativa intrusione nell'altrui sfera personale che assurga al rango di "molestia o disturbo" ingenerato dall'attività di comunicazione in sé considerata ed a prescindere dal suo contenuto; ad esempio, le citofonate e le continue chiamate al telefono di una persona possono integrare il reato di molestie, così come i reiterati insulti rivolti alla vittima in un luogo pubblico. Recentemente, è stata condannata l'inquilina di un condominio che, al solo fine di arrecare disturbo e fastidio ai titolari e agli avventori del ristorante posto al piano terra, sbatteva il portone di metallo producendo un rumore fortemente molesto, riversava acqua dai balconi bagnando gli avventori sottostanti e fotografava questi ultimi mentre erano intenti a godersi attimi di svago e convivialità apostrofandoli in maniera offensiva. [Vedi Trib. Lecce, 15 febbraio 2021, n. 1611].

La molestia consiste comunque in un'attività disturbatoria, pressante ed indiscreta, ma svoltasi “a distanza”, che non comprende necessariamente un comportamento connotato da un'intrusione nella sfera fisica della persona offesa.

Per ciò che invece attiene alla violenza sessuale , l'art. 609- bis Cod. Pen. prevede che “ Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”

La condotta sanzionata comprende dunque qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest'ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale. Occorre inoltre considerare che i reati di violenza sessuale offendono la libertà personale intesa come libertà di autodeterminazione a compiere un atto sessuale, e non già la libertà morale della vittima, intesa come il pudore e l'onore sessuale. 

Ne consegue che non ogni atto espressivo della concupiscenza dell'agente configura un atto sessuale idoneo a ledere la libertà di determinazione sessuale del soggetto passivo, essendo indispensabile che tale atto offenda la sfera della sessualità fisica della vittima. La nozione di atti sessuali è, in pratica, la somma dei concetti di congiunzione carnale ed atti di libidine previsti dalle previgenti fattispecie di violenza carnale ed atti di libidine violenti: non possono essere inclusi in tale nozione quei comportamenti – quali ad esempio un gesto di esibizionismo sessuale o un atto di autoerotismo compiuto davanti a terzi - che, pur essendo manifestazione di istinto sessuale, non si concretano in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero non coinvolgono la corporeità di quest'ultimo. [vedi Cass. Sez. III, 12 febbraio 2004].

Ed invero, l a molestia si differenzia dall'abuso sessuale -anche nella forma tentata- proprio in quanto prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e normalmente si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con insistenti telefonate o con espressioni volgari, nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta [Vedi Cass. Sez. III, 26 ottobre 2005]. Ciò in quanto tra i biasimevoli motivi previsti dall'art. 660 c.p., costituenti elemento del reato di molestie o disturbo alle persone, possono essere ricompresi anche quelli destinati a dar sfogo al proprio impulso sessuale, purché l'azione di fastidio e di incomodo non vada oltre il turbamento della quiete privata.

  • Il palpeggiamento dei glutei: è molestia o violenza sessuale?

Alla luce di quanto fin qui argomentato, è allora possibile ritenere che il toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, configura il reato di violenza sessuale.

Come detto, la condotta punita dall'art. 609- bis Cod. Pen. ricomprende, oltre alla congiunzione carnale vera e propria, qualsiasi altro atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest'ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale. 

Pertanto la valutazione del giudice sulla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ed al grado di intensità fisica del contatto instaurato , ma deve tenere conto dell'intero contesto in cui tale contatto si è realizzato; di conseguenza possono costituire un'indebita intrusione fisica nella sfera sessuale non solo i toccamenti delle zone genitali, ma anche quelle altre parti anatomiche, c.d. "erogene", che, normalmente e notoriamente, sono oggetto di concupiscenza sessuale. Ai fini della configurabilità del reato è peraltro necessario e sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la coscienza e volontà di compiere atti di invasione nella sfera sessuale altrui senza l'ulteriore necessità di quelle finalità particolari (soddisfacimento dell'istinto sessuale), che pur nella generalità dei casi, di fatto, ne costituiscono il movente, ma non rientrano, tuttavia, nella fattispecie tipica.

La giurisprudenza è infatti concorde nel ritenere che il palpeggiamento dei glutei integra l'ipotesi di violenza sessuale e non di molestia , essendo configurabile il reato contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo e insistito, diversi dall'abuso sessuale vero e proprio.

Per quanto infine attiene alla quantificazione della pena, una recente pronuncia [vedi Tribunale Bari sez. II, 07/09/2021, n.2381] precisa che i toccamenti sui glutei e sul seno perpetrati da sopra ai vestiti e per tempi molto brevi, in ragione della loro modesta invasività e delle non drammatiche conseguenze per la persona offesa, possano rientrare nel concetto di minore lesività di cui all'attenuante prevista per il reato di violenza sessuale ex art. 609 bis, comma terzo, c.p., che comporta una diminuzione di pena in misura non eccedente i due terzi.

Investimento di pedone: come viene ripartita la colpa?

Investimento di pedone: come viene ripartita la colpa?

Il pedone che attraversa al di fuori delle strisce pedonali è sempre responsabile del proprio investimento?

  • Le fonti: Codice Civile e Codice della Strada

Per capire come viene ripartita la colpa in un sinistro stradale con investimento di pedone occorre richiamare una norma fondamentale che disciplina la circolazione dei veicoli: questa è quella contenuta nell' art. 2054 del Codice Civile , il cui prima comma dispone che  “il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno .”

Secondo la giurisprudenza prevalente ( ex multiis Cass. Civ. n. 1135 del 2015), la formulazione dell'art. 2054 Cod. Civ. stabilisce una presunzione di colpa a carico del conducente , il quale è onerato di fornire la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno prodotto dalla circolazione del veicolo; in caso di investimento di pedone, dunque, vi sarà in ogni caso una responsabilità presunta del conducente.

Tale presunzione, tuttavia, non esclude che si possa fornire la prova di un eventuale concorso di colpa del pedone nella causazione del fatto, qualora risulti che quest'ultimo abbia tenuto una condotta imprudente o comunque in contrasto con l'art. 190 C.d.S; trattasi infatti di presunzione relativa (e non assoluta) che ammette prova contraria.

L'art. 190 del Codice della Strada pone infatti delle regole comportamentali per il pedone, il quale dovrà ovviamente utilizzare gli appositi attraversamenti, se presenti. In assenza di strisce o altri attraversamenti, invece, il pedone dovrà prestare l'attenzione necessaria ad evitare situazione di pericolo per sé o altri, e dare la precedenza ai mezzi in transito.

La violazione di queste norme integra senza dubbio una condotta colposa che, in caso di investimento, può determinare: a) un concorso di colpa con il conducente, con conseguente diminuzione, proporzionale, del risarcimento; b) una responsabilità esclusiva del pedone, con conseguente perdita di ogni diritto al risarcimento dei danni;

  • I criteri da seguire per l'attribuzione della colpa

La Corte di Cassazione (sentenza n. 2241 del 2019), confermando un orientamento consolidato, traccia linee guida molto chiare per i giudici che saranno chiamati ad accertare le rispettive colpe -e dunque anche l'entità dell'eventuale risarcimento dei danni- in caso di sinistro stradale con investimento di pedone. Sono tre i passaggi da seguire :

1) Punto di partenza è la presunzione di colpa del conducente, pari al 100%;

2) Occorre poi accertare in concreto l'eventuale comportamento colposo, imprudente, negligente del pedone;

3) infine, ridurre progressivamente la percentuale di colpa a carico del conducente via via che emergono circostanze idonee a dimostrare la colpa del pedone: tanto più il comportamento di quest'ultimo si discosta dall'art. 190 C.d.S., tanto maggiore sarà l'incidenza nella causazione del sinistro.

Precisa poi la Corte di Cassazione che la condotta del pedone che inizi l'attraversamento della strada al di fuori delle strisce pedonali senza dare la precedenza ai veicoli sopraggiungenti costituisce automaticamente una concausa nella produzione dell'evento. Ciò significa che, pur partendo dal 100% di colpa a carico del conducente, per il solo fatto che l'attraversamento sia avvenuto fuori delle strisce pedonali questa responsabilità dovrà necessariamente essere ridotta, in modo più o meno ampio a seconda delle circostanze concrete che saranno accertare dal giudice.

Vi è poi la possibilità che l'investimento del pedone al di fuori delle strisce possa essere ricondotto a sua esclusiva responsabilità (con conseguente perdita di ogni diritto al risarcimento dei danni ) quando il conducente, che deve vincere la presunzione di colpa di cui all'art. 2054 Cod. Civ, dimostri che il pedone si sia posto come ostacolo imprevisto, imprevedibile, ed inevitabile , e, dall'altro lato, di aver tenuto una condotta corretta e rispettosa di ogni prescrizione stradale.

Tuttavia, l'imprevedibilità della condotta del pedone dovrà essere valutata con particolare rigore, non potendosi ritenere imprevedibile il semplice attraversamento al di fuori delle strisce pedonali, soprattutto se questo avviene in un'area particolarmente affollata o vicino ad una scuola: ad esempio non è stato ritenuto imprevedibile nemmeno l'attraversamento frettoloso e a testa bassa di un pedone in una strada del centro urbano dove si trovano vari bar ed esercizi commerciali. (cfr. Cass. n. 12595 del 2015).

Ciò appare in effetti coerente con la nuova disposizione dell'art. 191 C.d.S. ( Comportamento dei conducenti nei confronti dei pedoni) che stabilisce che i conducenti debbano rallentare gradualmente e fermarsi non solo quando un pedone transiti sull'apposito attraversamento, ma anche quando si trovi nelle sue “ immediate prossimità”.

  • >Un caso particolare: il pedone investito sulle strisce ha sempre ragione?

Il pedone che si accinge ad attraversare la strada utilizzando un apposito attraversamento non è neppure tenuto a verificare se i mezzi in transito mostrino o meno l'intenzione di rallentare e lasciarlo attraversare, potendo egli fare ragionevole affidamento sugli obblighi di cautela gravanti sui conducenti; ciononostante, qualora la sua condotta sia connotata da estrema imprevedibilità e straordinarietà, potrà comunque sussistere un concorso di colpa. È il classico caso del pedone distratto che oltrepassa l'attraversamento pedonale dando l'impressione di non volerlo percorrere ma, cambiando idea all'improvviso, si getta repentinamente in mezzo alla strada, venendo colpito da un mezzo in transito. Può essere utile richiamare la sentenza n. 5540 del 2011: « il pedone, il quale attraversi la strada di corsa sulle apposite strisce pedonali immettendosi nel flusso dei veicoli marcianti alla velocità imposta dalla legge, pone in essere un comportamento colposo che può costituire causa esclusiva del suo investimento da parte di un veicolo, ove il conducente dimostri che l' improvvisa ed imprevedibile comparsa del pedone sulla propria traiettoria di marcia ha reso inevitabile l'evento dannoso, tenuto conto della breve distanza di avvistamento, insufficiente per operare un'idonea manovra di emergenza

In assenza di attraversamenti, invece, occorrerà distinguere i casi in cui il pedone non abbia ancora impegnato la carreggiata, dove dunque la precedenza spetterà al veicolo sopraggiungente, dai casi in cui il pedone abbia già impegnato la carreggiata, nei quali il conducente dovrà sempre consentirgli di raggiungere in sicurezza il lato opposto della strada.

  • Conclusioni

In definitiva, il conducente sarà in ogni caso responsabile, o quantomeno corresponsabile, dell'investimento del pedone, salvo che non riesca a dimostrare che quest'ultimo abbia tenuto una condotta “imprevista ed imprevedibile” da cui ne è derivata un oggettiva impossibilità di avvistarne tempestivamente i movimenti e di porre in essere una manovra di emergenza.

Per andare indenne da ogni pretesa risarcitoria (ed anche da responsabilità penale, in caso di lesioni riportate dal pedone) il conducente non solo dovrà dimostrare di aver rispettato tutte le norme sulla circolazione stradale, ma dovrà altresì fornire prova della imprevedibilità del comportamento del pedone, cosa che, all'atto pratico, può essere particolarmente complessa (basti pensare al sinistro avvenuto in assenza di testimoni); non a caso, le sentenze che imputano la causazione del sinistro alla responsabilità esclusiva del pedone sono assai sporadiche.

Vendita online di un prodotto non autorizzata dal titolare del marchio

Vendita online di un prodotto non autorizzata dal titolare del marchio

In linea generale un principio fondamentale che regola il rapporto tra il principio della libera circolazione di merci e servizi e la tutela dei diritti di proprietà industriale è il c.d. principio dell’esaurimento di quest’ultimi.

Nel caso del diritto al marchio l’applicazione di questo principio comporta che il titolare del diritto possa compiere il primo atto di immissione in commercio del prodotto contraddistinto dal marchio, dopodichè il prodotto potrà circolare liberamente all’interno dell’Unione Europea, senza che il titolare possa far leva sulla privativa industriale per ostacolare la vendita da parte di terzi del prodotto già immesso sul mercato dal titolare del marchio o, comunque con il suo consenso.

Questo principio trova applicazione anche nel caso in cui il titolare del marchio tenti di bloccare la vendita da parte del terzo del proprio prodotto (originale e già introdotto sul mercato dal titolare stesso) attraverso i canali di vendita on line.

Il titolare del marchio potrà invece opporsi alla circolazione del prodotto già immesso sul mercato nel caso in cui le modalità utilizzate da un terzo per la commercializzazione siano tali da ledere la reputazione del marchio o si verifichi un danneggiamento o modifica della confezione o del prodotto stesso. Questa è infatti un’eccezione particolare che la normativa prevede all’operatività del principio dell’esaurimento dei diritti di proprietà industriale in forza del 2° comma dell’art. 5 del Codice di Proprietà industriale il quale dispone che ‘.. questa limitazione dei poteri del titolare (n.b.: derivante dal principio di esaurimento del diritto) tuttavia non si applica quando sussistono motivi legittimi perchè il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato od alterato dopo al loro immissione in commercio’.

E’ però importante sottolineare che tra questi ‘motivi legittimi’ non vi rientra la mera riduzione del prezzo applicata dal terzo rispetto a quello applicato dalla rete di distributori ufficiali.

Di recente il Tribunale di Milano, con l’ordinanza n. 3755 dell’11 maggio 2021 (ricorrente ‘Chanel’), ha però operato un importante distinguo, stabilendo che le modalità di vendita, anche attraverso siti online, di un rivenditore esterno alla rete di distribuzione selettiva di un marchio di lusso che siano lesive del del prestigio e della reputazione dello stesso possono essere impedite.

In tal caso infatti, secondo detta ordinanza, non può applicarsi il principio dell’esaurimento del marchio ex art. 5, comma 1°, del Codice di Proprietà industriale e viene quindi riconosciuto al titolare del marchio il diritto di opporsi a tali vendite.

La decisione ha riguardato il caso di una nota società di prodotti di alta moda operante nel settore del lusso che ha agito in giudizio lamentando di ritersi danneggiata dalla condotta di una società che commercializzava e promuoveva senza autorizzazione alcuni prodotti con il suo marchio sulla rete Internet.

Questa attività di vendita, a detta della ricorrente, non teneva conto dei severi standard qualitativi richiesti dalla stessa per i distributori della propria rete commerciale ed in generale degli standard relativi alla vendita di prodotti di lusso. La ricorrente rilevava, inoltre, la manomissione dei codici di tracciabilità apposti sulle confezione di tali prodotti.

Il Tribunale di Milano ha valutato dapprima la legittimità del sistema di distribuzione selettiva della ricorrente che viene genericamente definito come ‘un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contrato, direttamente od indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema..’.

Tale sistema è astrattamente idoneo ad impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza ma tale modalità di vendita può essere considerata legittima a condizione che vengano rispettate le seguenti condizioni: a) sia limitata a prodotti di lusso e di prestigio al fine di conservarne la qualità e garantire un utilizzo corretto; b) i limiti imposti alla libera concorrenza e generati da tali modalità di vendita non vadano oltre il necessario e siano stabiliti in modo oggettivo (nel caso di specie si prevedeva che i prodotti del brand non dovevano essere affiancati da altri prodotti recanti altri marchi, che dovesse essere garantito un servizio di consulenza personalizzata, che dovesse essere assicurata l’alta qualità del sito Internet mentre non era prevista alcuna prescrizione di natura restrittiva relativa ai prezzi, al territorio ed alle forniture.

Riconosciuta quindi la liceità del sistema di distribuzione selettiva della ricorrente, il Tribunale di Milano si è soffermato sulla condotta della resistente, al fine di verificare se la stessa rispettasse o meno gli standard qualitativi imposti dalla ricorrente per i propri distributori autorizzati.

Il Tribunale, all’esito di tale esame, ha ravvisato la corretta applicabilità al caso di specie della deroga prevista dall’art. 5, comma 2° del CPI, in quanto la resistente non aveva applicato gli standard richiesti dal brandi di moda per preservare il proprio prestigio e notorietà; i codici identificativi originari dei prodotti risultavano essere stati rimossi, i prodotti venivano accostati ad altri prodotti di minor qualità, il sito web presentava l’immagine di una campagna pubblicitaria non più in corso.

Il Tribunale ha quindi escluso l’operatività del generale principio di esaurimento di cui sopra ed ha conseguentemente riconosciuto il legittimo esercizio da parte della ricorrente della facoltà di opporsi alla vendita ex art. 5, comma 2°, CPI, disponendo l’inibitoria, assistita da penale, alla ulteriore commercializzazione, offerta in vendita, promozione e pubblicizzazione dei prodotti a marchio della ricorrente sul sito e.commerce della resistente nonchè la pubblicazione del dispositivo dell’ordinanza sul sito della stessa.

I like al post su Facebook costituiscono indizio sufficiente a far ritenere sussistente il reato di istigazione all'odio razziale.

I like al post su Facebook costituiscono indizio sufficiente a far ritenere sussistente il reato di istigazione all'odio razziale.

La Corte di Cassazione Penale conferma, in attesa del processo, la misura dell'obbligo di presentazione presso la polizia giudiziaria per il soggetto che ha aderito ad un gruppo neonazista nato su Facebook e che, tramite i suoi 'like', contribuisce alla diffusione dei post dal contenuto antisemita.

Ciò in ordine al reato di cui all'articolo 604-bis del Codice Penale, rubricato “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”,che prevede una pena che può arrivare fino a 6 anni di reclusione e 6.000 euro di multa.

Il reato di istigazione all'odio razziale è un crimine contestato soprattutto sulla base dell'attività social dell'indagato, che interagiva con una comunità virtuale neonazista, il cui scopo principale era la propaganda e l'incitamento all'odio razziale.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene indizio sufficiente del reato di istigazione all'odio razziale la condotta sostanziatasi in plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp, dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, risultando sussistente il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone.

Ma come si può ritenere che, semplicemente mettendo dei “like” su un post, si possa contribuire a diffondere il messaggio antisemita e discriminatorio?

I giudici sottolineano le modalità di funzionamento dei social network e di Facebook in particolare, incentrato su un algoritmo che considera rilevanti i like e che assegna un valore maggiore ai post che ricevono più interazioni. Ne discende che, tanto più un post riceverà like, commenti e condivisioni, tanto più questo verrà considerato “di maggior valore”, così che verrà più ampiamente valorizzato e diffuso all'interno della community.

Sentenza n. 4534 del 6 dicembre 2021.

Indirizzi Pec e sede italiana delle principali compagnie aeree

Indirizzi Pec e sede italiana delle principali compagnie aeree

La mancanza di personale delle compagnie aeree ed i relativi scioperi hanno portato, com'è noto, a voli cancellati fino a settembre, ritardi, overbooking, smarrimenti dei bagagli e vari altri disagi per i passeggeri con conseguenti, numerose, richieste di rimborso e risarcimento danni.

Si ritiene utile fornire, pertanto, una lista con i contatti delle principali compagnie aeree per coloro che avessero necessità di inoltrare tali richieste.

 La lista è in aggiornamento:

- Aegean Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Torre Uffici 2, Via Gen. Felice Santini, snc – 00054 Fiumicino (RM)

- Aeroflot Russian Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. sede italiana: Via Bissolati, 76 – 00187 Roma (RM)

- Aerolineas Argentinas

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - sede italiana: Via cavour, 310 – 00184 Roma (RM)

- Air China

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. sede italiana: Corso d’Italia, 29 – 00198 Roma (RM)

- American Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - sede italiana: via dell’ aeroporto di fiumicino, 320, p. internazionali – terminal c – 00054 fiumicino (RM)

- Air Italy

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: via gustavo moreno, hangar est – ingresso 4 – 21019 Somma Lombardo, Varese (VA)

- Air France

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: via sardegna, 40 – 00187 Roma (RM)

- Air One

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: Piazza Almerico da Schio, 6, pal. rpu – 00054 Fiumicino (RM)

- Alitalia

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: Società Aerea Italiana s.p.a. in amministrazione straordinaria, via Alberto Nassetti– 00054 fiumicino (RM)

- Blue Panorama Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. sede: Blue Panorama Airlines in amministrazione straordinaria, Viale Liegi, 32 – 00198 Roma (RM)

- British Airways

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Viale Città d’Europa, 68 – 00144 Roma (RM)

- Easy Jet

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Fernanda Wittgens, 3 c/o revistudio – 20123 Milano (MI)

- Iberia

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Basento, 57 – 00198 Roma (RM)

- KLM

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Modigliani, 45- 20090 Segrate Milano (MI)

- Lufthansa

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Spadolini, 7 – piano 8 – 20141 Milano (MI)

- Meridiana Fly

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede: Centro direzionale aeroporto Costa Smeralda - 07026 Olbia (OT)

- Ryanair

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Piazza Della Repubblica, 4 – 20124 Milano (MI)

- Tap Portugal

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Giovanni Battista Martini, 13 – 00198 Roma (RM)

- Turkish Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Barberini, 47 – 00187 Roma (RM)

- Volotea

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Viale Luigi Broglio 8 30174 Venezia (VE)

- Vueling Airlines

pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – sede italiana: Via Barberini, 47 – 00187 Roma (RM)

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